Dopo la metà di marzo, nell’attuale scuola a distanza balza agli occhi, prima sommessamente, poi platealmente, la questione del voto. E cominciano i mal di pancia soprattutto tra dirigenti ed insegnanti. Occorre dare i voti. Questa è la parola di ordine.

Prassi vuole che il voto in nome dell’oggettività venga espresso sui compiti in classe svolti sotto gli occhi vigili dei docenti, sulle interrogazioni in aula, programmate o meno, con sentenze immediate davanti a tutti gli alunni testimoni di equità e di correttezza procedurale. Ma la situazione nuova sconcerta, pone testardamente le sue domande: “Come vi è possibile controllare i lavori assegnati in lontananza e svolti a casa soli o, in molti casi, male accompagnati? Come potrete smascherare quelle strategie di furbizia scolastica che si tramandano da generazioni nella valutazione: bigliettini, date e formule sulle mani, assenze e bigiate, ecc, stando lontano? Come fate ad evitare che l’interrogazione avvenga con i libri aperti, con pagine fotocopiate e giustapposte con malizia al monitor del computer?”.



Non tutti accettano questa formulazione delle domande sul voto. Chi le fa proprie è colui che pratica la valutazione come sistema poliziesco, chi riduce l’insegnante al ruolo di vigile o di arbitro, quasi un estraneo, se non un nemico degli studenti. I “vigilantes” più zelanti durante l’interrogazione, in questo periodo, pretendono che l’interrogato stia davanti al video con occhi bendati oppure si alzi in piedi e tenga le mani in alto per rispondere alle domande.



Non stiamo esagerando, non sono leggende metropolitane. Effettivamente ci sono docenti che senza il potere del voto, minacciato o promesso, non sanno che pesci pigliare nello svolgimento delle verifiche a casa. Loro non soffrono per l’assenza della relazione con gli studenti, ma per la mancanza di possibilità di esercitare il potere di controllare. Nell’intimo c’è un pensiero che frulla e nutre il loro disagio: “Chi garantisce che i compiti non siano esito di copiature, di impegni materni o paterni, di suggerimenti benevoli di fratelli maggiori? Quale validità e attendibilità può avere un’interrogazione o una verifica scritta fatta lontano dal controllore?”.



Sono i docenti che ignorano la valutazione formativa come accompagnamento nell’apprendimento e per l’apprendimento, oppure dimenticano che lo scopo della valutazione è fare imparare. Le buone prassi e i richiami ministeriali attestano che la funzione della valutazione è educativa prima ancora che certificativa. La ricerca didattica documenta esperienze di valutazione autentica per l’apprendimento intenzionale, significativo, critico, sempre più autonomo, senza il quale non maturano le competenze chiave. Valutare è riconoscere e attribuire valore: epistemico, semantico, esistenziale. In quanto tale è spina dorsale dell’insegnamento e dell’apprendimento.

E il voto? In quest’ottica viene visto come un aspetto importante del processo valutativo, ma non essenziale. La valutazione non consiste nell’assegnare il voto. Questo, al massimo, è una virgola all’interno di una frase (giudizio), che attesta la qualità dei processi, dei progressi, dei prodotti nel cammino di conoscenza del reale e della realizzazione dell’alunno.

A me pare che questi mesi di quarantena e di scuola a distanza stiano contribuendo a dare il giusto rilievo al voto e costringendo a bonificare il concetto di valutazione. Quello che conta è far imparare, favorire l’intraprendenza dell’alunno, motivare “l’oggettività”, che un’amica preside definisce “ tensione all’oggetto di apprendimento”. In altre parole non c’è opposizione tra valutazione formativa, senza la quale sarebbe impossibile la scuola online, e la valutazione sommativa. La prima è propedeutica della seconda: aiuta a raccogliere dati, realizza feedback, favorisce la correzione, motiva e guida nell’acquisizione di un metodo, promuove l’autovalutazione e quindi consapevolezza e responsabilità.

La valutazione sommativa cammin facendo deve sintonizzarsi con le ragioni, i tempi, i passi, i pronunciamenti della valutazione formativa. Si esprime al termine di un periodo, di un’ unità di apprendimento di un progetto, con voti in numero o con aggettivi. Nello scrutinio finale, al voto decisivo contribuiscono i dati e le informazioni raccolti in itinere nella logica della valutazione formativa basata sulla ragione spalancata più che sulla ragione strumentale.

Il numero esprime una misura. La misurazione, però, non è l’essenza della valutazione. Storicamente è iniziata con la rivoluzione francese e diffusa da Napoleone nell’Europa occidentale. È un abuso degli Stati che si sono dichiarati padroni assoluti dell’istruzione. È figlia allevata dal positivismo ed idolatrata dal comportamentismo che l’ha installata sul piedistallo dell’oggettività scientista nel secolo scorso.

Quello che accade nella scuola a distanza è un invito a dire basta con la tirannia del numero. Attenzione, però; non si tratta di negare la funzione del voto, ma di riconoscere e rispettare la differenza tra valutazione pedagogica e valutazione sociale e, quindi, riconoscere la funzione del voto nell’altra e nell’altra. La valutazione pedagogica ha come compito di curare la “formazione”, gli interessi della persona dell’alunno, hic et nunc. Quella sociale guarda all’alunno astrattamente inteso, quello che può essere facilmente misurato e classificato in un controllo che ha il suo picco negli esami. Nella scuola a distanza non ci sono le condizioni ragionevoli per misurare il grado di conformità tra l’alunno in carne ed ossa e l’alunno ideale e, quindi, a porre il primo nella curva di Gauss. Non sto dicendo che non è legittimo in nessun contesto. Può valere per esempio per la statistica, può essere utile se persiste il valore legale dei titoli di studio ottenuti con gli esami di maturità, di licenza media, di concorsi, ecc. Semplicemente sostengo che non corrisponde alle esigenze di un percorso autenticamente educativo.

Che fare allora in questi giorni? Gli insegnanti domandano come possono arrivare ad un voto valido, attendibile, equo se posseggono solo dati ed informazioni sui singoli alunni e il loro lavoro svolto in famiglia.

Per prima cosa, paradossalmente, dovrebbero ascoltare i genitori del singolo alunno che avendolo in carico 24 ore su 24 potrebbero fornire dati ed informazioni che arricchiscono la documentazione del giudizio sia discorsivo-narrativo sia sintetico, espresso per convenzione in numero. In secondo luogo proporre dei compiti autentici, detti anche “di realtà” o prove esperte, orali, scritte e pratiche che stimolino gli studenti, secondo il grado e l’ordine di scuola, a narrare, descrivere, argomentare su esperienze, argomenti svolti, progetti effettuati in questo secondo quadrimestre nelle diverse discipline. In terzo luogo dialogare con gli alunni sui risultati dei suddetti compiti, magari utilizzando le rubriche di osservazione, di correzione e di valutazione, rielaborate e utilizzate cammin facendo.

E soprattutto, come ci ripete l’esperienza vissuta in questi tempi, “basta con la tirannia del voto che misura e classifica”. Conta quello che è essenziale, quello che resta dopo il voto, quello che vale per il soggetto impegnato a scoprire e a vivere il senso delle cose. Conta che lo studente impari un metodo (rapporto tra un soggetto e un oggetto, tra una forma e un contenuto; tra passi e meta), acquisisca e sviluppi l’abitudine al giudizio, all’autovalutazione che è consapevolezza, responsabilità, docilità all’apprendimento permanente.

In questa prospettiva le prossime settimane sono i giorni di un primo raccolto e di una nuova seminagione. Infatti la strada della crescita umana e culturale è lunga. E tutti siamo chiamati ad intraprenderla. Nessuno deve essere escluso. Non vogliamo impiccati sulla strada della conoscenza e della convivenza veramente umana. 

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