Nella considerazione della stragrande maggioranza della gente l’evento valutativo è molto spesso percepito e vissuto come forma di “detenzione di potere” che scatena conflitti, genera malessere e, a volte, ingiustizia.
L’esperienza attesta che la verità e l’efficacia del gesto valutativo non stanno nella forza del potere o/e del dominio, ma nella relazione coerente e amorevole dell’autorità. Lo si capisce osservando gli alunni, dialogando con i genitori e i docenti. Si vede che la valutazione o è un gesto ragionevole di un maestro, che accompagna gli allievi sulla strada della conoscenza, oppure è una procedura estrinseca all’insegnamento: una forzatura che fa soffrire non solo gli alunni.
Lo notavo osservando i comportamenti di certi colleghi, soprattutto in certi consigli di classe, dove l’essere maestri (magisterialità) era espressione di un potere più che di un’autorità. Non un impegno a far crescere, come ricorda l’etimologia (auctoritas, da augeo: “faccio crescere”), ma un ostacolo irragionevole, un’imposizione autoritaria, l’idolatria del controllo a cui sembra che non interessi la crescita integrale dell’alunno. Naturalmente non in tutte le classi e per tutti i docenti. Oggi si possiede maggiore consapevolezza del compito della valutazione, c’è più cura, più tensione comunitaria e personalizzante, c’è una maggiore dinamicità didattica (processo, percorso, progetto…). Il compito della valutazione è promuovere, riconoscere e attribuire valore; è educare, cioè introdurre e accompagnare un soggetto nella realtà e nella storia.
In questa prospettiva la promozione non è una questione di benevolenza, né una concessione, ma espressione di professionalità, di conoscenza e di metodo. È un fatto, che riguarda il modo di impostare la lezione, gli esercizi, le interrogazioni, le verifiche, i rapporti, il dialogo… che va oltre le strettoie della razionalità strumentale e l’assegnazione del voto.
La valutazione è dimensione dell’essere umano, dotato di logos (linguaggio, ragione). Non è maledizione, ansia che diventa angoscia, paura che “fa diventare matti”. È veicolo di apprendimento, strumento per l’avventura conoscitiva, operazione di attribuzione di valore a fatti, eventi, oggetti e simili. È assegnazione di senso-valore a un determinato evento o processo educativo e agli oggetti, fatti, elementi che lo costituiscono. È ancella dell’insegnamento-apprendimento sempre più autonomo e critico, a servizio dei protagonisti secondo stili che rispecchiano visioni profondamente diverse rispetto alla realtà, all’uomo, all’oggetto e al metodo di conoscenza e, quindi, alla scuola.
Procedere argomentando
Con tutti i rischi delle schematizzazioni generali, potremmo raggruppare gli stili dei docenti in due categorie: enunciativo e argomentativo. “Il primo stile presuppone l’organizzazione scolastica come una macchina incaricata di perpetuare la cultura dominante nella comunità” (Rigotti, Conoscenza e significato, 2009, p. 33). Per Bruner è lo stile del docente come espositore, soggetto attivo prevalente se non unico nella situazione didattica, di fronte allo studente “ascoltatore – legato – al banco”, inconsapevole del processo in atto. È il docente che non tiene conto delle conoscenze e degli interessi del destinatario e pratica l’insegnamento come meccanica trasmissione di un sistema di nozioni, di abilità e di credenze.
Lo stile argomentativo, in una visione e pratica della educazione come introduzione alla realtà, “interpella la persona, come soggetto ragionevole e libero e punta a farne crescere la ragione e la libertà. … Chiede alla comunicazione educativa una tensione critica – una passione per la realtà – che tocca sia la modalità dell’insegnamento-apprendimento sia i suoi contenuti” (Rigotti, ibidem).
Che cosa c’entra tutto questo con la valutazione?
La valutazione è una forma particolare di argomentazione: è in simbiosi con l’interpretazione, sostiene la paziente elaborazione del giudizio basato su inferenze e promuove una leale condivisione dei passi e delle ragioni del giudizio stesso tra gli interlocutori. Ovviamente non è l’argomentazione come dissertazione scientifica, né come dimostrazione finalizzata ad attestare, deduttivamente o induttivamente, la verità di un enunciato. Suo obiettivo non è la “vittoria” sull’interlocutore, ma la ricerca “congiunta” e “cooperativa” di una conclusione che è già contenuta in determinate premesse condivise. È una ricerca caratterizzata “dal vedere insieme le ragioni di quel che viene proposto, dalla coerenza, dal gusto della realtà, dalla sfida della ragionevolezza, dalla percezione della gerarchia teleologica dei contenuti, dal rispetto della categorialità dell’allievo” (Rigotti, 2009, ibidem).
La sfida della ragionevolezza
Non si può insegnare senza aiutare a costruire un giudizio che tenga conto della totalità dei fattori rilevanti… nell’oggetto di apprendimento, nel dato a cui si deve prestare attenzione, nel problema dal risolvere, nel tema da svolgere, nella lezione da apprendere. La valutazione al riguardo gioca un ruolo ragguardevole. Il docente, che valuta mantenendo la ragione protesa alla totalità dei fattori, con un metodo adeguato, evita lo scoglio della razionalità scientista e procede senza paura della valutazione. È l’insegnante magisteriale o argomentativo, che sfugge al tranello della ragione ridotta a misura, alle gabbie ideologiche, agli scogli irragionevoli della scuola. Sa e condivide che l’atto valutativo prende in considerazione tutti i fattori implicati nella situazione didattica, relativi, per esempio, all’alunno (storia, categorie mentali, appartenenze culturali e sociali, stili e tempi di apprendimento), alla natura e dinamica della materia, al grado di scuola, ecc… Se non si abbraccia il tutto, sfugge il significato della parte. Lo sguardo si annebbia e la valutazione è da panico, scoraggia, non persuade, perché rinuncia a essere un’operazione argomentativa, un’educazione al giudizio. Il primo argomento persuasivo del docente, che coinvolge gli altri attori della valutazione e procede con equità in modo ragionevole, sta proprio nel suo sguardo, come ho detto più volte.
In un contesto di ragionevolezza, in cui gli insegnanti sono consapevoli che “la funzione principale della valutazione consiste nell’essere a servizio degli attori del processo educativo” (Hadji, La valutazione delle azioni educative, 2017, p. 5), le verifiche, correzioni, voti diventano azioni pertinenti, efficaci ed efficienti. Ripeto: non si tratta di “buonismo”, ma di un’attenzione alla totalità dei fattori, capace non solo di riconoscere il valore attuale, ma anche di attendere quello che sta emergendo alla luce di una razionalità aperta: quella che possiede il gusto dell’argomentazione cooperativa ed esige un atteggiamento critico verso tutti e tutto. Non si tratta, quindi di chiudere gli occhi, ma di aprirli usando tutta la ragione anche in quell’aspetto che la connette al cuore (e viceversa).
Insomma, un docente valorizza (promuove) non perché rinuncia alla sua ragione (“chiude un occhio”), ma perché applica la ragione, senza censurare l’affezione, con e per l’alunno che riconosce dotato della ragione e del cuore, quindi capace di ragionevolezza.
Valutare con stile argomentativo significa immettere nella relazione pedagogica e nell’elaborazione didattica una minima base di principi comuni su cosa è la valutazione, a che serve, come deve essere svolta e che risultati deve produrre.
Valutare non è definire gli alunni e, quindi, credere di conoscerli sempre e comunque. Non vuol dire fissarsi su schemi, fermarsi alle impressioni, prestare attenzione solo ad alcuni fattori (solo cognitivi, solo sociologici, solo affettivi). Chi valuta con verità non esclude niente e nessuno. Accetta il rischio del giudizio nel desiderio leale di servire la “promozione” praticando l’argomentazione. Egli è consapevole che “l’argomentante deve saper tenere conto della sua gerarchia dei fini (gerarchia teleologica) e deve sapersi concentrare sul fine principale che sta perseguendo, lasciando in secondo piano gli altri possibili fini” (Rigotti 2009, p. 137). Spesso assistiamo proprio all’assenza di questa consapevolezza e nella consegna dei giudizi (compiti in classe, scheda di valutazione) si nota un’ enorme difficoltà render ragione del giudizio espresso.
Rendere ragione e “fare” comunità
Quando un docente assegna e corregge una verifica, interroga e formula un giudizio, argomenta e non enuncia, com-partecipa alla raccolta delle informazioni sull’oggetto da valutare, al processo elaborativo e alla formulazione dei giudizi, argomentando esplicitamente, provocando la capacità critica, che è fedeltà all’evidenza e corretto ragionamento, li guida e li accompagna nel giudicare il percorso e il lavoro, in modo che imparino a distinguere ciò che è “buono” da ciò che è “cattivo”, “vero” da “falso”, “bello” da ” brutto”, ecc.
È convinto che un voto positivo o negativo non deve mai essere espresso contro il rapporto, al contrario esso serve per mantenerlo migliorandolo continuamente. Testimonia che il fine di tutti i lavori, anche quello delle verifiche ed interrogazioni, è la soddisfazione nell’apprendimento, nella continua approssimazione alla verità, nella ricerca e condivisione del bene, nella comunità di apprendimento.
“Fare comunità” è il compito essenziale della comunicazione e, in particolare, dell’interazione argomentativa: argomentare significa creare consenso, intesa, impegno comune. Ma il compito di fare comunità non si esaurisce nell’efficacia della comunicazione. È rilevante la qualità del consenso ottenuto e questa è assicurata costruendo il consenso attraverso la pratica condivisa della ragione. L’argomentazione è la possibilità di costruire una convivenza ragionevole, a diversi livelli (dall’interazione tra due persone alla società) che non è immune dal rischio dell’inganno e della manipolazione, ma ha in sé gli strumenti per difendersi dal consenso irragionevole. L’argomentazione, infatti, è il discorso che dà le sue ragioni, che giustifica le decisioni, le credenze, le posizioni dell’argomentante (Rigotti 2009, p. 153).
Esagerato? No, soprattutto nella pratica della valutazione formativa. No, perché non ci limitiamo al riscontro dei dati o alla manifestazione dei propri sentimenti o delle proprie reazioni (desiderio, paura, ammirazione, sorpresa, ecc.), o alla pura informazione. No, perché desideriamo spiegare, giustificare, motivare… insomma dare ragione di quel che diciamo, delle scelte che compiamo, dei voti che assegniamo. Infatti “è attraverso l’argomentazione che si struttura la convivenza, si formano le categorie della valutazione, si crea il consenso, nasce e si compone il conflitto” (Rigotti, 2009, p. 153).
(4 – continua)
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