L’anno scolastico sta volgendo al termine e gli scrutini si avvicinano, portando con sé una serie di azioni, sentimenti e tensioni che poco si addicono a un percorso di conoscenza attraente e proficuo, come si auspica che sia l’esperienza scolastica. La recente uscita del volume di Rosario Mazzeo, La valutazione liberata (Bonomo 2019) si prefigge il compito di rifondare la pratica valutativa, offrendo risposte e strade che nascono dalla riflessione sulla sua ricca esperienza didattica e dirigenziale, condivisa con alcuni docenti di Diess che partecipano alla alla Bottega “Verifica e valutazione”. All’autore rivolgiamo alcune domande cruciali su questo tema.



Nell’introduzione di La valutazione liberata si legge: “Valutare è naturale e inevitabile. È dimensione congeniale all’essere, al pensare a all’agire dell’uomo. Tutti ne facciamo esperienza” (p. 15). E più avanti “Insegnare bene è valutare bene e viceversa. Insegnare è indissolubile da valutare” (p. 51). Ma se valutare è naturale, perché fa così paura? Se insegnare e valutare sono indissolubili perché la valutazione a scuola è spesso fonte di tensioni e conflitti tra docenti, studenti e famiglie?



Si tratta di una paura come quella suscitata dalla peste descritta da Manzoni -come afferma Bezzi in uno dei suoi libri sulla valutazione -, che nasce da una pratica malata della valutazione, precisamente da un uso che la rende arma di potere, trionfo del formalismo, verdetto inappellabile. Tale disagio dipende anche da una confusione tra valutazione pedagogica, cioè svolta nell’interesse dell’alunno, e valutazione sociale effettuata dallo Stato, confusione che storicamente si è stabilita con l’Illuminismo e Napoleone, contribuendo, tra l’altro, a ridurre la valutazione a misura, a selezione, a classifica.



Misurare è differente da valutare, ma è possibile valutare senza misurare? Si legge nel tuo libro: “Ci sono quelli che dicono sì alla valutazione, no al voto”. (p. 47).

E fanno male! Il motivo è l’assolutizzazione del voto aggravata dalla presunzione di oggettività, che sembra essere un dogma inattaccabile, perché – si dice – “scientifico”. Ok alla misurazione, ma solo come un aspetto di un processo che dovrebbe essere fondato sulla ragionevolezza più che sulla razionalità e sulla tecnocrazia. Valutare è riconoscere e attribuire valore, non solo ai risultati, ma anche al percorso, tenendo conto di tutti fattori, anche di quelli non quantificabili. In altre parole valutare non è definire, incasellare il ragazzo, ma pro-muovere ogni alunno, cioè spingerlo in avanti, sostenerlo, incoraggiarlo, comunicandogli la certezza che c’è un bene anche per lui nell’avventura degli apprendimenti e nella fatica delle verifiche.

In un capitolo del libro parli di co-valutazione… in un altro di valutare in équipe… a cosa servono cooperazione e coralità, essendo la valutazione un atto di giudizio personale?

Perché il ragazzo possa fare esperienza di promozione a prescindere dal fatto che il voto sia positivo o negativo, dovrebbe essere guardato come attore della valutazione, un protagonista di una dramma buono nell’avventura della conoscenza, non come un oggetto. La co-valutazione è un’attività in cui l’insegnante coinvolge l’alunno come soggetto valutatore, non solo nella correzione delle prove, ma anche nel giudizio in base a una rubrica precedentemente elaborata e condivisa, in un dialogo critico argomentativo, cioè che presenta le ragioni di questa o di quell’affermazione. Tra l’altro solo in questo modo si favorisce l’autovalutazione, senza la quale non c’è consapevolezza, quindi apprendimento umano. La cooperazione e la coralità sono imprescindibili, richieste dalla normativa stessa. Esse non contraddicono il fatto che la valutazione sia atto di giudizio personale. Ricordiamo, infatti, che personale non vuol dire individualistico e che la persona è sempre in relazione.

Attualmente ai docenti è chiesto di valutare sia il raggiungimento di obiettivi di apprendimento, sia lo sviluppo di competenze e il comportamento. Ciò richiede strumenti diversificati di osservazione e di comunicazione della valutazione: come non disperdere le energie dei docenti, il cui compito rischia di focalizzarsi pressoché esclusivamente sulla valutazione? A cosa puntare essenzialmente affinché la valutazione non diventi una corvée, come scrivi nel tuo libro?

Perché non resti una corvée, occorre che il docente colga e abbia sempre presente le finalità della valutazione, non dimentichi cioè che valutare è fare imparare. In quanto tale la valutazione non può essere ridotta a un’assegnazione dei voti, operazione questa che costringe ad accumulare informazioni, a somministrare verifiche, ad infliggere test soprattutto nelle ultime settimane prima degli scrutini, con il risultato evidente che si consolida nei ragazzi la convinzione che la valutazione sia una maledizione scolastica, non un’esigenza della ragionevolezza del vivere e dello studiare. Occorre recuperare, secondo me, l’unità dell’azione insegnante. Voglio dire, per esempio, che la spiegazione, durante una lezione, implica la valutazione (affermazione ed attesa di un valore), senza la quale quell’ora di lezione è sterile.

La misurazione e la valutazione si fondano sul confronto: ciò implica la delineazione di scale comuni. Come allora tener conto della personalizzazione nel percorso formativo?

Bisogna innanzitutto chiarire cosa si intende per personalizzazione. Personalizzare è guardare e trattare l’altro come persona, cioè essere unico, irripetibile, di valore infinito, sempre in relazione con gli altri, libero, dotato di ragione e di affezione, che non può essere classificato, ridotto a un numero o a meccanismi psicofisici. La personalizzazione non è però individualizzazione, ma riconoscimento di questa alterità e diversità. Sì, dunque, a scale comuni, ma solo per avere certe informazioni in vista del giudizio sul singolo studente, ben sapendo tre cose: non tutto è misurabile, non tutti partono dallo stesso livello di conoscenze e capacità, non tutti hanno lo stesso ritmo di maturazione e di apprendimento.

“La valutazione e i suoi strumenti assumono una dimensione assai rilevante da quando inizia il monopolio dello Stato sull’educazione e sulla formazione dei giovani”. (p. 41) Come si spiega questo fenomeno? A quali condizione la valutazione può essere liberata, dato lo statalismo e il centralismo ancora imperante del nostro sistema scolastico?

Reboul, filosofo francese dell’educazione, parlando di valutazione fa notare che “l’insegnante ha il suo doppio nel valutatore”. Mi sono chiesto per anni chi fosse questo doppio. Ho cominciato a fare ipotesi e a indagare sia a livello storico sia a livello della pratica valutativa. Sono arrivato alla conclusione che il “doppio” è il funzionario, cioè qualcuno che non appartiene alla natura dell’essere maestro, insegnante, docente. L’ho visto in me, soprattutto nei primi quindici anni del mio insegnamento, e l’ho constatato continuamente nei corsi di aggiornamento, negli scrutini. Quanti docenti vanno in crisi perché non sanno decidere se far prevalere in loro stessi la natura magistrale del loro insegnamento o l’ansia del funzionario, dell’impiegato. Quanti insegnanti vivono la sindrome di Gollum del Signore degli anelli o del dottor Jekyll e Mr. Hyde! Occorre davvero liberare la valutazione da ciò che non le appartiene. Ed è possibile, come ho cercato di documentare nell’ultima parte del libro.