Di fronte al disastro della scuola italiana, così impietosamente documentato dai suoi risultati, “la questione principale da affrontare, quella che da sola e prima delle altre, può risolvere una situazione così compromessa” non è così difficile da individuare ed è tutta riconducibile al nodo autonomia-responsabilità-qualità-merito, dimensioni non a caso fortemente osteggiate dal sindacato.



La priorità non è riversare ancora fiumi di denaro pubblico, come sostenuto dall’ex ministro Fioramonti. Quanto ne è già arrivato negli anni, al Sud ad esempio con i Pon, ma anche (recentemente) in altre aree del Paese? Quanti corsi di formazione sono stati attivati per introdurre e sostenere le nuove metodologie e la didattica per competenze? Quante risorse destinate al Piano nazionale della scuola digitale? Quante per sostenere iniziative contro la dispersione? E a fronte di tutto ciò, quali sono i risultati?



Destinare più risorse economiche non è di per sé positivo. Anzi: immetterne altre senza cambiare i meccanismi del sistema equivale a introdurre un volume più ampio di acqua in un sistema idrico pieno di falle. Sprecando altro denaro pubblico, quando ormai non possiamo più permettercelo. Per cui, per favore: cambiamo direzione!

Cominciamo a porre le condizioni perché le situazioni problematiche non rimangano nascoste, perché si possa premiare ciò che funziona e sostenere ciò che non va. Allocando conseguentemente le risorse disponibili in modo mirato. Come?

A partire da un’autentica valutazione di sistema e dei docenti, che permetta di premiare (qui sì, anche con più soldi) chi lavora con passione ottenendo risultati e di intervenire nelle situazioni dove questi non migliorano o addirittura peggiorano.



Recentemente ho potuto constatare di persona la valutazione cui gli enti di formazione che erogano l’offerta di istruzione e formazione professionale (IeFP) sono sottoposti in Regione Piemonte da un soggetto terzo, con un controllo in loco che oltre agli aspetti formali, amministrativi e gestionali, arriva a comprendere la qualità del servizio erogato, anche attraverso la somministrazione diretta all’utenza di un questionario di gradimento, nel pieno rispetto della privacy e in forma anonima, in modo tale da garantire la libera espressione del giudizio.

Le voci concernono vari aspetti, da quelli della preparazione, della capacità di relazione, di motivazione e supporto all’apprendimento da parte dei docenti, all’apprezzamento complessivo del servizio e della struttura. Gli esiti della rilevazione ovviamente si affiancano e completano la ricognizione effettuata sulla base di altri dati oggettivi.

Perché la stessa cosa non può avvenire nella scuola “pubblica”? Anche gli enti accreditati svolgono un servizio pubblico e fanno parte a pieno titolo del sistema nazionale di istruzione e formazione. Perché allora questa differenza tra le due tipologie di istituzione? Perché alle scuole è richiesto solo un rapporto di autovalutazione, gestito internamente, dove di fatto, nella stragrande maggioranza dei casi ci si auto-assolve e i parametri valutativi rimangono i più variegati? Dove anche se le criticità affiorano, non esiste poi nessun obbligo di revisione delle pratiche della didattica (tutto è lasciato alla libertà assoluta e inviolabile dei collegi docenti), non scattano misure di supporto e non si operano investimenti ad hoc. Destinando in modo mirato, appunto, le risorse economiche, umane e professionali. A livello nazionale e territoriale, ma anche, innanzitutto, delle stesse singole istituzioni, lasciando ad esempio la possibilità di assegnare internamente i docenti a ciò (funzioni varie) e laddove serve, valorizzando le loro reali competenze non riducibili alle “classi di concorso” e saltando (fermi restando i complessivi di istituto) i parametri numerici rigidi di composizione dei gruppi classe.

Cose in verità in parte abbozzate dalla legge 107/2015, ma di fatto impraticabili a causa della rigidità complessiva di un sistema solo teoricamente rivolto al soddisfacimento dei diritti e dei bisogni dell’utenza, o impropriamente disapplicate dalle regole contrattuali (mentre dovrebbe valere esattamente il contrario). Basti pensare a come è stato indegnamente svuotato di qualsiasi significato e messo in sordina anche il primo timido tentativo di introdurre il riconoscimento del merito dei docenti.

Come su questo giornale continuamente sottolineato, il vero nodo è certamente quello della motivazione e della capacità dei docenti. La scuola non potrà cambiare senza passare da qui, ossia senza docenti appassionati e preparati. Ma questi non potranno mai capovolgere l’attuale situazione di “insegnamento di massa” e dequalificato se non saranno valorizzati, anche in termini monetari, essendo la dimensione economica misura di un valore sociale.

In ogni caso, cominciamo ad attingere alle risorse che sono già a disposizione: riconosciamo i docenti meritevoli che non sono pochi, che rimangono sotto traccia e che vengono trattati alla stregua di chi dello stipendio neppure avrebbe diritto.

Rompiamo con la falsa e ideologica affermazione che tutti – in quanto laureati e abilitati, in quanto appartenenti alla categoria – possiedono lo stesso livello di professionalità. L’ultimo investimento di cui abbiamo bisogno è proprio l’aumento indifferenziato degli stipendi, mossa che serve solo a riguadagnare voti, non certo a risollevare la scuola e il Paese.

Anche perché, diciamola tutta: gli stipendi del personale docente sono certamente bassi per alcuni (e in alcune aree del Paese, dove la vita è più cara), ma – lo sanno bene gli studenti e le famiglie – molto, anche troppo alti per altri.

Poi sistemiamo il resto, a cominciare dai meccanismi di reclutamento che dovrebbero essere posti in capo alle istituzioni, assegnando una reale autonomia a queste ultime e prevedendo livelli reali – non l’attuale farsa – di responsabilità dei dirigenti. Con corrispettive, serie forme di controllo centrate sui risultati e sulla qualità del servizio, non solo sugli aspetti burocratico-formali o sul consenso interno della componente docente…

Sarà questa la linea del governo, o ancora quella che continua a fare della scuola un postificio e una riserva di consenso politico?