Nella selva oscura della didattica a distanza, noi insegnanti spesso perdiamo la diritta via. Soprattutto per colpa di una mala pianta che, da improvvisato botanico dell’universo scolastico, intuitivamente mi viene da battezzare “paranoia da copiatura”.

L’ansia che gli studenti, al di là dello schermo, si inventino mirabolanti sistemi per fregarci impregna il nostro animo. La telecamera si blocca per dieci secondi… Cosa starà facendo Gianpiercarlo? Ecco che la faccia svanisce per un istante e vedo il pallino con l’iniziale… Oddio, Rosamunda di solito è tanto brava, perché si sta nascondendo?



Niente, copiano. Certi come siamo di questo fatto, palese come il sorgere del sole al mattino, ecco che subito parte l’impari sfida. “Adesso gli faccio una verifica molto più difficile, così vedo se effettivamente copiano”. “Devo trovare un modo di fregarli, stavolta. Non la passeranno liscia!”.

Frasi che ho sentito proferire da colleghi, non esagerazioni letterarie. Entrare nella spirale discendente nel sospetto, lasciarsi avvinghiare dalle spire del proverbiale cartesiano dubbio iperbolico è talmente facile che spesso è difficile accorgersi di stare, lentamente, ma inesorabilmente, adottando tutta una serie di buone (?) pratiche ossessivo-compulsive degne di una vittima di patologici deliri persecutori.



La Dad fa ammalare anche così. “Vedrai, appena tornano li riempio di verifiche e interrogazioni così imparano”. In particolare questa frase, sibilata a denti stretti, mi ha scosso dal sonno della ragione.

Imparano cosa, di preciso? A non copiare? Se fosse una battuta, non farebbe nemmeno ridere, tanto è assurda.

Non fraintendetemi: anche io penso che, se ne hanno l’occasione, i nostri studenti a copiare ci provino, eccome. Ma non si stanno comportando in maniera diversa dai tre quarti dei terrestri, se dovessero mai entrare in possesso dell’Unico Anello che rende invisibili (che venga da Tolkien o dal mito di Gige, come preferite): proverebbero ad usarlo per fini egoistici e non necessariamente legali.



E allora, che si fa? La tentazione di pararsi le terga semplicemente fregandosene è allettante, ma non risolve la radice del problema. Nella selva oscura ci vuole una guida, per ritrovare la strada. Non avendo un Virgilio, mi sono accontentato dei miei studenti. Ho chiesto a loro cosa ne pensassero della questione.

Mi rendo conto che abbia un non so che di sacrilego rivolgersi a loro. Ma come? I copiatori? I mentitori? Quegli infingardi che nel buio della loro stanzetta escogitano oscuri piani malvagi per vanificare i nostri sforzi?

Sì, proprio loro. Sono Rosamunda e Gianpiercarlo il motivo per cui siamo insegnanti, in fondo. O no?

E, anatema e scandalo, la risposta è stata candidamente affermativa. A copiare ci provano, in Dad. “Ma come, ci proviamo sempre, anche in presenza, prof. Mica vuol dire che non studiamo”.

L’apparente contraddittorietà di Ginetta mi trascina nella tana del bianconiglio. Il discorso si infiamma. Ed emerge una frase che mi provoca una fitta al cuore.

“Forse a questo punto è inutile che studiamo, prof. Tanto, i nostri sforzi in questo periodo non valgono niente. Tutto quello che facciamo lo bollate con ‘tanto copiano’, no?”

Dopo questa tagliente – e forse un po’ gratuita – provocazione, potrei mollare il colpo. A dire il vero, più che potrei, vorrei. È vero che ho iniziato io, ma ho Kant da finire e sto già perdendo tempo. Glielo dico. Anzi, aggiungo, un po’ per sviare il discorso: “In effetti non vedo l’ora di tornare in presenza, perché spiegare questi argomenti con voi davanti è tutta un’altra cosa”.

Frase banalotta, detta tanto per dire, che tutti noi abbiamo pensato. Ma i maledetti hanno fiutato il sangue e non mollano l’osso. “Vede, prof, è quello il punto. Lei vuole tornare perché vuole raccontarci le cose e noi la stimiamo per questa cosa. Altri ci dicono che non vedono l’ora di tornare per darci dei voti ‘veri’. Come se darci voti sia l’unica cosa che conta”.

Lo spirito è forte ma la carne è debole: per un istante gongolo del complimento a tradimento. Ma percepisco che il loro non è il “solito” lamento fine a se stesso; la loro sete di essere guardati in un modo diverso mi incalza. Kant perde la sua attrattiva. Il sasso è stato gettato nello stagno e i cerchi concentrici nell’acqua limpida si fanno sempre più ampi. Si improvvisano filosofi, i pargoli, e arrivano, senza che io li guidi in alcun modo, al nocciolo del problema scuola. Perché? Perché Kant, perché Foscolo, perché Napoleone, perché la trigonometria?

Sono degli implacabili mastini e, a mo’ di resa, concludo: “Ragazzi, io getto semi. Ovvio che mi piacerebbe che la pianta nascesse subito e nascesse in tutti, ma è altrettanto ovvio che non sta a me. Non so se fiorirà domani, dopodomani o tra dieci anni, quando io non sarò più lì con voi per vederla”.

“E non è detto che dal seme di Kant nasca Kant, prof. Cioè, chissà cosa Kant potrà far nascere in me”, aggiunge Ermengilda. Sono commosso. Ok, loro sono dei dannati ruffiani e inconsciamente sanno colpirmi dove brucia, ma mi costringono, portandomici di peso, a ritornare a chiedermi il motivo per cui faccio il mio mestiere.

Torno a casa e una domanda mi resta in testa. Perché diamo voti? Non mi sono mai posto questo problema prima d’ora, lo faccio perché si fa così e basta. Perché così vuole il sistema scuola.

Tuttora sono convinto che serva. Non viviamo nel migliore dei mondi possibili, per cui non possiamo pensare che i nostri studenti studino per il puro piacere di farlo. Non lo pretendiamo nemmeno dai noi stessi, perché credere che ne siano in grado loro? Una prova, alla fine di un cammino, è un utile sprone perché, studiando, almeno qualcosa in loro rimanga. Perché il seme aumenti le possibilità di attecchire, tanto per restare in tema.

Ma mi rendo conto che per noi insegnanti è molto facile cadere nella trappola di fraintendere cosa valutare e, ancor di più, chi stiamo valutando. Al di là delle griglie, al di là dei parametri, che pure ci vogliono e servono, ci sono delle persone. Non attori che interpretano a comando una parte, ma persone. Non sono tagliato per scovare su internet le ricette della nonna, ma certo mi addormento ripromettendomi di trovare un modo perché nelle verifiche, nelle interrogazioni che farò, la loro umanità possa trovare lo spazio per spiegare le ali e per crescere.

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