Mai titolo fu più interessante (“Problemi sulla valutazione scolastica”) per il convegno organizzato dalla Fondazione “I Lincei per la scuola” nei giorni 9-11 ottobre 2024, di cui si attende la pubblicazione delle registrazioni video. E i problemi non sono quelli che affliggevano trent’anni fa noi insegnanti (come definire univocamente il contenuto del voto “6”, qual è la griglia più “scientifica” e oggettiva per il tema, …), ma riguardano il modo per raggiungere lo scopo sostanziale dell’assegnare voti, inteso come strumento che aiuta lo studente nel suo percorso: non una valutazione degli apprendimenti, ma per gli apprendimenti.



Secondo il DL 62/2017, valutare “ha finalità formativa ed educativa” il che non significa l’abolizione della valutazione detta sommativa, ma che essa “concorre al miglioramento degli apprendimenti e (…) documenta lo sviluppo dell’identità personale” (art. 1 co.1). Tuttavia la valutazione pone una quantità di problemi spesso poco percepiti: le distorsioni che gravano la valutazione e ne inficiano la validità, gli impliciti soggettivi di cui il docente non è consapevole, la difficoltà a far convivere valutazione formativa e sommativa e il rapporto tuttora confuso fra valutazione scolastica e valutazione di sistema, i vincoli della burocrazia come l’uso non neutro del registro elettronico.



Un problema è già l’idea che la valutazione serva per “sanzionare”: tot errori, tot diminuzione del voto (con annessa griglia a pesi ponderati). Diciamo che si “corregge” una prova, ma il termine confina con la casa correzionale o le corregge (le cinghie), in negativo. Ma l’errore non è una colpa, bensì un’informazione da collocare in un contesto più ampio. Soprattutto la valutazione dovrebbe essere il risultato di un processo praticato in modo consapevole (la famosa chiarezza degli obiettivi), per “valorizzare” quanto raggiunto in un percorso di crescita su certe cose precise. Valorizzare non significa non essere rigorosi!, ma dire in positivo: hai dimostrato questa capacità, hai superato questa difficoltà (i famosi “verdi” di Luca Serianni, al posto dei soli rossi e blu). La valutazione è formativa se è trasformativa, se cioè consente allo studente di avere i segnali giusti per percorrere una strada di crescita: in pratica deve essere descrittiva, cioè entrare nel dettaglio di quello che è stato raggiunto, e descrivere in modo comprensibile quali sono i passi ulteriori da fare.



Solo una valutazione descrittiva fa da feedback (un momento fondamentale dell’apprendimento), e responsabilizza sia il docente sia lo studente. Responsabilizza il docente perché gli richiede di dire il “valore” di un compito, cioè di saper dire esplicitamente qual è il significato dello svolgerlo e la meta; responsabilizza lo studente che non si limita a prendere atto di un voto, ma si impegna in un lavoro. Questo potrebbe richiedere dei cambiamenti ai prof (per es., esercizi di scrittura brevi da valutare velocemente e spesso, da far fare in doppia versione per vedere come cambia dall’una all’altra… / addizioni cloze con ricorso all’inferenza e al ragionamento al posto di quelle routinarie).

Proprio sull’idea di scuola come percorso per passi progressivi non si fa sufficiente riflessione: non è scuola quella dove si imparano uno dopo l’altro una serie di “capitoli”, se non si acquisiscono conoscenze organiche, metodi di lavoro, strumenti operativi, abilità legate alle diverse discipline, che evidentemente devono crescere nel tempo. Le competenze non sono “idee romantiche” (così una relatrice) scarsamente definibili, ma ciò che una certa disciplina permette di mettere in azione. In matematica, per esempio, non è importante soltanto il risultato senza il modo in cui si ragiona per arrivarci, e gli errori servono per discutere sui ragionamenti, e per questo i compiti devono essere sfidanti: in questo senso valorizzare è il contrario del buonismo. Si sa che i matematici sono più avanti nel descrivere le “azioni” della materia e tenere sotto controllo i processi (vedi come si insegna a fare le divisioni ai bambini della primaria), molto più degli italianisti (vedi la difficoltà a dare ai bambini della primaria criteri univoci e verificabili in grammatica per evitare che vadano a orecchio o a caso).

Un altro scoglio è la confusione fra valutazione e voto: è possibile fare in classe esercitazioni e prove di diverso tipo, che vengono valutate ma non necessariamente si traducono immediatamente in voti numerici. La valutazione va certamente appuntata in modo sistematico anche attraverso strumenti ad hoc, ma il voto può essere la sintesi di diverse valutazioni. Da qui la critica all’espressione corrente “un congruo numero di voti” (in realtà di valutazioni), formula che sopravvive anche se non pare esserci una normativa che la utilizzi. Da qui la lamentazione da tutti condivisa contro la rigidità dei registri elettronici (e del freddo messaggio che arriva sul cellulare del ragazzo: un secco numero che non lascia spazio ad alcun percorso condiviso) o contro le griglie formali che i prof sono obbligati a compilare senza reale utilità se non quella di armarsi contro i ricorsi.

Numerosi sono stati gli esempi positivi anche molto praticabili, sia sull’italiano sia sulla matematica, della possibilità che la valutazione aiuti gli studenti a orientarsi realisticamente rispetto alle proprie potenzialità. Tanto che nell’ultima sessione il presidente della Fondazione, prof. Alberto Tesei, si domandava come mai la valutazione solleva tanti problemi se tante sono le idee, le ricerche, le buone pratiche. Tra le risposte a questa domanda emerge la scarsa formazione esplicita dei docenti su questo argomento fondamentale, che più che essere questione teorica (es. i crediti formativi sulla docimologia) potrebbe richiedere comunità di pratica, scambi, condivisione in contesti collaborativi, come per esempio i tirocini dei formandi in scuole accoglienti.

Insomma la valutazione scoperchia la pentola di una serie di problemi irrisolti, di normative e pratiche scoordinate fra loro, di scelte non dichiarate di cui spesso chi lavora a scuola non ha piena consapevolezza, ma che emergono in situazioni di “stress”, fra cui evidentemente gli scrutini. E allora le vittime designate sono alternativamente l’Invalsi, perché standardizzare la valutazione viene confuso con appiattire il tema, o il ministero, soprattutto se cambia le norme in corso d’opera. In realtà, i problemi sono più articolati e meritevoli di approfondimento.

Nel corso del convegno è emerso lateralmente anche il punto cruciale, cioè la questione del “valore”: se valutare è dare valore, che cosa ha valore? Innanzitutto, la persona in crescita, e poi lo strumento per crescere (scuola) e l’oggetto dell’apprendere (materie). Sullo “strumento-scuola” segnalo il prezioso intervento tecnico riguardante l’incidenza delle infrastrutture scolastiche sulla qualità degli apprendimenti, che pare fornire una ipotesi sul perché dei bassi risultati di apprendimento di certe Regioni del Sud (fra gli indicatori facilità dei trasporti, o presenza di mense, palestre, biblioteche: qui il testo della ricerca).

Quanto all’oggetto, pur essendo il focus posto sull’italiano e la matematica, il tema non è emerso esplicitamente. Tuttavia se gli studenti non percepiscono che quello che viene loro proposto “vale la pena”, difficilmente avverrà un percorso, la conquista spesso faticosa di una condizione diversa da quella di partenza; è doloroso se i nostri ragazzi non si sentono attratti da un valore chiaro delle materie scolastiche (se non si innamorano della matematica, della lingua e della letteratura italiane), e questo non può non interrogare noi adulti.

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