Dal prossimo anno scolastico addio ai giudizi descrittivi, nella primaria si tornerà ai giudizi tradizionali che andranno da ottimo a insufficiente (forse anche “gravemente insufficiente”). È quanto prevede un emendamento del disegno di legge sulla revisione del voto in condotta che vorrebbe cancellare l’introduzione della valutazione per livelli di apprendimento introdotto dalla ministra Azzolina, ma senza tornare al precedente voto numerico ideato a suo tempo dalla ministra Gelmini. Per la quarta volta dal 2008 potrebbe cambiare, così, la formulazione della valutazione periodica e finale alla scuola primaria: dai giudizi ai voti, poi ai giudizi descrittivi e, a breve, ai giudizi sintetici.
L’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, nel commentare questo emendamento, ha auspicato di “tornare, dal prossimo anno scolastico, a formule comprensibili al posto di quelle astruse introdotte di recente” con il proposito di cambiare “il sistema di valutazione alla scuola primaria” sostituendo “le definizioni incomprensibili ‘avanzato’, ‘intermedio’, ‘base’, ‘in via di prima acquisizione’” ed auspicando che “alle elementari le valutazioni siano chiare, semplici: ottimo, buono, discreto, sufficiente, insufficiente, gravemente insufficiente”.
Appare improprio e non dignitoso qualificare con aggettivi quali astruse e incomprensibili le formule di valutazione che sono state utilizzate a partire dal dicembre 2020 nella scuola primaria, formule che, al di là delle considerazioni di merito, intendono documentare un impegno didattico dei docenti e delle scuole per promuovere l’acquisizione di competenze negli alunni e che esplicitano una descrizione qualitativa che necessariamente il voto numerico limita.
Quando, nel 2020, fu introdotta la sperimentazione obbligatoria dei giudizi descrittivi – nel bel mezzo della pandemia e in corso d’anno – le scuole primarie fecero un grande sforzo per adattarsi, ripensando indicatori e obiettivi e, andando oltre il dettato ministeriale, costruendo forme di comunicazione agli alunni e alle famiglie che favorissero la novità che quella riforma proponeva: puntare al valore formativo della valutazione ed al suo essere non puro momento certificativo degli apprendimenti acquisiti, ma strumento di dialogo per accompagnare in modo personalizzato il cammino di crescita degli allievi. Valore e dialogo che oggi stanno cominciato a diventare condivisi ed efficaci.
L’accantonamento delle formule oggi utilizzate per descrivere i livelli di apprendimento sostituendole con espressioni (ottimo, buono, discreto, etc.) che alludono a dei voti rischia implicitamente di ricondurre la valutazione degli apprendimenti ad una documentazione di pure performance, disperdendo l’investimento sull’insegnamento per competenze su cui si è sviluppato il lavoro pedagogico di questi anni, significativo proprio nei contesti scolastici attuali che registrano difficoltà e insicurezze emotive nei bambini.
Perché, invece, non far concludere almeno un periodo quinquennale di sperimentazione dell’attuale modello – che ha comportato, non si dimentichi, l’impegno di ore di formazione e di lavoro da parte dei team formativi e dei dirigenti scolastici – programmando, semmai, un ponderato monitoraggio degli esiti, anche in dialogo con le scuole e con le associazioni professionali, per introdurre, poi ed eventualmente, correttivi?
Resta l’amarezza di rilevare la fatica della politica e dell’amministrazione a concepirsi come strumento di servizio e non di governo sostitutivo dell’autonomia scolastica che, dove bene esercitata, crea modelli, promuove strumenti efficaci, opera con modalità comunicative che favoriscono il dialogo scuola-famiglia. Una concezione centralista che, oltre che a generare disorientamento e demotivazione, non fa sempre il bene della scuola e dei suoi protagonisti.
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