Anche nella Francia che spesso, a torto o a ragione, mitizziamo, la ripresa delle lezioni è stata segnata da qualche articolo sul tema. Non solo. Appena prima della rentrée, lo scorso settembre, Macron ha incontrato alla Sorbona gli equivalenti dei nostri provveditori. Da quando ha perso la maggioranza assoluta, sui giornali si sostiene che la macronie (il mondo di potere che gli ha gravitato per 5 anni intorno, e qualcuno ricorda Il favoloso mondo di Amélie) è meno burbanzosa, ma, al contrario del nostro Paese in cui i politici lisciano irresponsabilmente tutti anche quando non si è in campagna elettorale, non le ha mandate a dire. Fine dell’abbondanza e tono più crepuscolare. Michel Blanquier, il ministro precedente, dal 2017 ha inanellato una serie di trasformazioni dall’alto fra cui l’obbligo 3-6 anni che è stato citato anche nella nostra campagna elettorale. Ma non è stato neppure rieletto (il Miur ed i suoi equivalenti sono fatali sotto ogni cielo), gli insegnanti sono mancati all’appello di un’area politica che li ha visti sempre protagonisti e le diseguaglianze continuano ad essere “criantes” (Le Monde) e dipendenti dallo stato economico sociale più che in ogni altro Paese (Pisa-Ocse).
Cosa ha detto Macron in quell’occasione? Scuola più libera, autonoma, flessibile (ancora più liberale, secondo i detrattori), importanza dei fondamentali, mezz’ora al giorno di sport al collège, mezze giornate alla scoperta dei mestieri in funzione di orientamento al liceo (in Francia si chiamano così tutte le scuole superiori), rinforzo della matematica dopo un periodo di eclisse parziale (vedi il discorso sui fondamentali). Sostegno all’innovazione pedagogica a partire dall’esperimento di Marsiglia – città particolarmente problematica –, scuola più inclusiva (bisogna ricordare anche che la Francia ha una minoranza magrebina storica ed il ruolo che le banlieues non solo parigine hanno avuto nella presenza del terrorismo).
Come metodo, partire dal terreno e dai suoi bisogni limitando la tendenza alla pilotaggio dal centro tipicamente francese, affidando maggiormente il reclutamento ai capi di istituto (incontrando l’usuale opposizione di chi vi vede un reclutatore privato). Ma la gestione centralizzata ed i suoi problemi sono stati ben illustrati sul Figaro ed altri da interviste ad insegnanti titolari che si vedono sorpassati nella scelta delle province dai contrattualizzati (i nostri precari).
Dal punto di vista del travagliato rapporto fra scuola e lavoro, rinforzo della strada professionale anche in relazione ai bisogni del mercato, allungamento dei periodi di stage ai licei, collaborazione più stretta fra professionali ed insegnanti usciti dalle aziende (il terrore peggiore per gli insegnanti, commentava Le Monde). Gli aumenti saranno in relazione a nuovi compiti di accompagnamento ad allievi in difficoltà e di organizzazione ed animazione di progetti extrascolastici: gli insegnanti guadagneranno di più lavorando di più. I sindacati non sono d’accordo. Dulcis in fundo estendere le valutazioni nazionali come aveva iniziato a fare il giubilato Blanquier per valutare le pratiche pedagogiche più efficaci ed analizzare i bisogni.
Gatte da pelare per il nuovo ministro che, in omaggio evidente alla politically correctness di prammatica nella temperie attuale, si chiama Pap Ndiyaie, è uno storico specialista delle minoranze, professore a Sciences Po e viene descritto come di carattere non aggressivo, ma di cui cominciano ad essere snidati i punti deboli: i figli sono iscritti alla École Alsacienne.
Il suo primo problema è stato far sì che ci fosse un professore davanti ad ogni classe, ricorrendo pertanto a precari “contrattualizzati”. La promessa di 2mila euro netti per insegnanti al debutto non ha calmato le acque perché si scontra con la realtà salariale di quelli più avanti negli anni e nella carriera. Un approccio di maggiore ascolto rispetto a quello del suo predecessore Michel Blanquier, ma che non garantisce molto, visto l’impatto economico che avrebbe un significativo miglioramento del livello salariale dell’enorme massa degli insegnanti francesi.
Tutto ciò ricorda qualcosa?
Ma cosa pensano i francesi? Challenge con Harris Interactive ha svolto una indagine su 10mila persone. Il 52% pensa che negli ultimi 15 anni il livello della scuola si sia deteriorato abbastanza, il 25% molto, il 15% che sia rimasto uguale… scarsi dunque gli ottimisti che vedono un miglioramento.
Le cause: troppi alunni per classe 27%, il contenuto dei programmi 24%, il funzionamento generale del sistema educativo 23%, la demotivazione degli insegnanti 20%, la mancanza di volontà degli allievi 17%.
Possibili misure efficaci: lo sviluppo dell’apprendistato 69%, il raddoppio delle classi di scuola materna 59%, meno ore di insegnamento accademico nelle scuole ad indirizzo professionale 41%, cambiamento dei criteri di ammissione agli studi superiori 35%.
Per migliorare la prestazione degli insegnanti: meno allievi per classe 52% (in Francia sono mediamente 21 alla primaria), ristabilirne l’autorità 51%, migliorare l’attrattività della professione 32%, usare un approccio più benevolo 28%, valutare gli insegnanti più spesso (in Francia la valutazione ovviamente esiste) 23%, ricompensare il merito 15% (si ricordi che in Francia una carriera esiste).
Ritroviamo qui tutti i temi italiani, assunti anche con un certo ritardo, ad esempio l’autonomia delle scuole e la valutazione centralizzata. La ragione è il grande prestigio che ha in Francia la “scuola repubblicana” ed a questo proposito basti dire che quasi tutta la classe dirigente politica ed amministrativa, compreso ovviamente Macron, esce dalle Ena, le scuole di eccellenza nazionali cui si è ammessi per merito e che peraltro sono state da Macron stesso riformate anche nel senso del decentramento. E perciò la crisi avviene con un certo ritardo, ad esempio le valutazioni centralizzate messe in cantiere dopo gli esiti non brillanti già di PISA 2000 sono state a lungo sabotate e diluite.
Una differenza sembra essere il grande consenso sia dei politici che delle famiglie sulla necessità di valorizzazione della formazione per il lavoro, ma in Italia è stata mai fatta una indagine su questo tema non fra gli insegnanti ma fra i fruitori del servizio scuola?
Ritroviamo peraltro tutti i temi relativi alla struttura della scuola: continua a vigoreggiare il tema del numero di alunni per classe nonostante le indagini internazionali abbiano dimostrato che sotto un certo numero (30 circa) non è significativo e che in Francia, come ancor più in Italia, il rapporto insegnanti-allievi ne sia largamente al di sotto. Ma comincia anche a spuntare qualche dubbio sugli aspetti che una volta si sarebbero chiamati ”disciplinari” e non solo nel senso di una maggiore benevolenza.
Da un po’ è chiaro che le ricette possono essere due e forse non sono da vedersi necessariamente come antitetiche. La più gettonata dal mondo pedagogico è una ripresa della capacità di coinvolgere ed interessare attraverso metodologie più attive che sarebbero efficaci verso tutti ed in particolare i più restii. L’altra, da noi in modo un po’ ridicolo rappresentata dalla spinta al ritorno ai voti in numeri, il ritorno alla serietà ed alla disciplina che potrebbero essere alla base del grande successo delle scuola delle “tigri asiatiche”. Ma è forse un’illusione che ciò possa avvenire solo all’interno delle mura della scuola, se garanzia di successo nel mondo là fuori è diventata quella di mostrare terga più o meno implumi.
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