Intempestive e calate dall’alto – secondo una costante della normativa sui nuovi esami di Stato – sono arrivate alle scuole superiori le griglie per la valutazione nazionale delle prove scritte. Esse costituiscono una delle novità più rilevanti della discussa riforma, introdotta a partire dall’anno scolastico in corso.



Dettate dall’esigenza di uniformare i criteri di valutazione al fine di evitare disparità clamorose – si ricordi il caso della Puglia, in cui il numero di diplomati con lode era anche dieci volte superiore a quello di altre regioni – le nuove griglie sono state rese note alle Commissioni d’esame all’atto del loro insediamento, ignorando ancora una volta il lavoro svolto dagli insegnanti nelle singole scuole.



Ci riferiamo in modo particolare alle griglie più delicate e discusse, relative alla prova di Italiano. Per non infliggere inutili sofferenze ai lettori del Sussidiario, ci limiteremo a riassumere i punti fondamentali di dette griglie. Esse si presentano divise per le tre tipologie previste, e sono composte da due fogli ciascuna: in tutto sei fittissimi fogli. Ogni griglia è costituita da Indicatori (dieci in totale, articolati in due sezioni, 6 + 4), Evidenze e Descrittori, cui seguono i vari punteggi da attribuire. Le griglie sono costruite in centesimi da ricondurre, con “opportuna proporzione”, in ventesimi: in pratica, si tratta di sommare i punteggi dei dieci indicatori/evidenze/descrittori, poi si divide per 5 con eventuali arrotondamenti. I professori di Lettere correggono i compiti con la calcolatrice. Si attende, per il prossimo anno, l’introduzione di un apposito algoritmo.



Per dare un’idea di alcune “voci” che i docenti sono chiamati a considerare, i descrittori invitano a valutare se il candidato “adotta strategie di sottoprocessi di scrittura provando più schemi compositivi”; oppure se “si preoccupa marginalmente della inferenza deduttiva e della coerenza logica”; se “avverte la cogenza della inferenza deduttiva ed il valore della razionalità”. Gli insegnanti di Lettere, nei quali forse sopravvive l’incanto della meravigliosa freschezza della nostra “lingua del sì”, subiscono ancora, fantozzianamente, le ripetute ingiurie inferte dal burocratese alla lingua di Dante, di Petrarca, di Leopardi.

Non si vuole qui sottovalutare la delicata e complessa questione della valutazione, fondamentale nella pratica scolastica, come sa bene ogni educatore, e su cui non mancano apporti interessanti nati dal dibattito tra esperti; né si ignorano le preoccupazioni che hanno mosso i tecnici ministeriali in ordine alle esigenze sopra menzionate di uniformità e di omogeneità. Ma non possiamo nemmeno sottacere che tale furore classificatorio ha in sé la sua nemesi.

Nato dall’ossessione dell’horror vacui, esso dimentica sempre qualcosa: per esempio che la libertà implica lo scarto, la deviazione, l’imprevisto, tanto che spesso i compiti più belli sorgono da qualche lampo improvviso e gratuito, sorprendente come “un’ala di gabbiano” della poesia di Pascoli. L’insegnante, dentro un quadro di riferimento chiaro, ragionevole e condiviso, deve poter esercitare la sua responsabilità di valutatore che conosce le peculiarità dei suoi studenti e della sua scuola. Le griglie devono configurarsi come strumenti agili, semplici, aperti, per accogliere e valorizzare la diversità di ogni ragazzo, non gabbie mortificanti e presuntuose, tese a comprimere ogni atto creativo e libero, come deve essere considerata l’arte della scrittura.

Alla fine di una mattinata impiegata a decidere se la “cogenza della inferenza deduttiva” vale tre o quattro punti, il professore sente l’esigenza di riandare con la memoria a versi come Dolce color d’oriental zaffiro o Dolce e chiara è la notte e senza vento. Non sappiamo per certo se la bellezza salverà il mondo, sappiamo che ci permette di respirare.