“La prima domanda che ci siamo posti è stata: c’è proprio bisogno di un’opera del genere? Ecco perché abbiamo fin dall’inizio coinvolto i dirigenti e i docenti, con l’intuizione di trasmettere bellezza, passione alla realtà, significato delle cose e gusto per la vita. Tutto questo, ovviamente, passando attraverso l’istruzione, che è la modalità quotidiana del fare scuola. E questo è l’abbrivio con cui abbiamo cominciato e che ha conquistato tante famiglie”. Così Francesco Crotti – presidente della Cooperativa Maria Consolatrice, ente gestore della scuola Regina Mundi di Milano in via Boncompagni, e consigliere della Cooperativa Impegno Educativo, che gestisce l’istituto Maria Consolatrice in viale Corsica – racconta come un gruppo di genitori, mosso da una gratitudine, ha scelto vent’anni fa di impegnarsi in prima persona nel rilevare un istituto in difficoltà, che oggi conta più di mille studenti e 700 famiglie, offrendo tutti e cinque i livelli di istruzione: nido, infanzia, primaria, secondaria di primo grado, licei linguistico e scientifico.



Come nascono le scuole “Regina Mundi”?

Tutto inizia nel 2000, quando le suore di Maria Consolatrice, che gestivano una scuola di viale Corsica allora frequentata dai miei figli e oggi rinominata come scuola “Regina Mundi Imc”, avevano deciso di chiudere la primaria. Con un gruppo di genitori, in tutto nove famiglie, ci siamo chiesti: perché perdere questa esperienza educativa? È stato un ritrovarsi mosso da una gratitudine per il riconoscimento che la crescita dei propri figli, accompagnati da altri adulti, avveniva dentro un’esperienza significativa che era un bene non solo per noi, ma per tutti.



Quale idea di scuola era ed è ancora oggi alla base di questa esperienza significativa?

Per quel gruppo iniziale di famiglie, molte delle quali vivono l’esperienza di Comunione e Liberazione, la mossa iniziale è partita proprio da quello che racconta don Luigi Giussani nel suo libro Il rischio educativo: uno diventa grande seguendo qualcuno che traccia una strada. Il metodo dell’esperienza e del rapporto fecondo con gli adulti fa crescere i ragazzi e nello stesso tempo li accompagna per tutta la vita. Dentro questo metodo ci siamo presentati alle suore: se non ve la sentite più di continuare quest’opera, non chiudetela, ma pensate all’ipotesi di poterla consegnare ad altri, per svilupparla, partendo da ciò che abbiamo visto tra voi e da ciò che stiamo condividendo.



Da lì è iniziata l’avventura? 

Sì. Poi nel 2007 siamo stati contattati dalle suore della San Vincenzo, anche loro in difficoltà nella gestione di una scuola in via Boncompagni che già si chiamava “Regina Mundi”, che ci chiesero se era possibile anche con loro ripetere quello che avevamo iniziato in viale Corsica.

Avete quindi bissato l’esperienza?

Ci siamo lasciati convincere dopo un’iniziale resistenza, perché non ci ritenevamo dei professionisti nel campo della gestione e del rilancio di una scuola. Allora la scuola contava poco meno di 400 iscritti ed era in gravi difficoltà economiche. Chiedendo un aiuto alle famiglie e razionalizzando alcuni costi e alcune attività, fin dal primo anno siamo riusciti a rimettere in sesto gli aspetti critici ed è stato il punto di abbrivio di uno sviluppo e di un consolidamento negli anni a seguire.

Come sono cresciute le scuole “Regina Mundi”?

La crescita è legata soprattutto al fatto di riuscire a far vivere il valore di fondo di questa esperienza: puntare sull’educazione, intesa non tanto come trasmissione di conoscenze, ma come possibilità di partecipare a un’esperienza che edifica e rilancia la persona, l’io. Così abbiamo potuto dire e testimoniare qualcosa di diverso, colmare una mancanza.

In che senso?

Proprio perché di scuole ce ne sono tante e le famiglie possono scegliere, la prima domanda che ci siamo posti è stata: c’è proprio bisogno di un’opera del genere? Ecco perché abbiamo fin dall’inizio coinvolto i dirigenti e i docenti, con l’intuizione di trasmettere bellezza, passione alla realtà, significato delle cose e gusto per la vita. Tutto questo, ovviamente, passando attraverso l’istruzione, che è la modalità quotidiana del fare scuola. Questo è l’abbrivio con cui abbiamo cominciato e che ha conquistato tante famiglie.

Come si tiene vivo questo abbrivio, impedendo che la fiamma si spenga, consumata dal tempo, dalla fatica, dalle difficoltà, dagli insuccessi?

Rimane accesa se chi guida vive una profonda unità. Fin da subito i componenti del Consiglio d’amministrazione hanno cercato di vivere questa responsabilità dentro un’amicizia personale. Non è tanto la preoccupazione di prendere una decisione giusta o sbagliata, quanto di far incontrare il senso che ha dato origine alla mossa iniziale. Questa unità e questo desiderio di trasmettere un significato hanno inciso non solo sulla scelta dei responsabili e dei dirigenti, ma anche nell’incontro con le famiglie, tanto che nel tempo ha portato al coinvolgimento di altri all’interno del Cda. Dopo vent’anni la preoccupazione che l’opera potesse continuare ci ha proprio chiesto di mettere in gioco questo metodo.

Che bilancio si sente di tracciare dopo vent’anni vissuti in prima linea?

Il primo bilancio è vedere con quale letizia i miei figli sono diventati adulti e appassionati allo studio, alla scuola e ai professori. È il segno più evidente della bontà della scelta operata vent’anni fa. Ma non solo: è vedere come questa compagnia è sbocciata anche nei figli degli altri e l’incontro con persone diverse che ancora oggi mi dicono “Ti ringrazio”. Al di là magari della fatica di sostenere una retta sicuramente impegnativa, soprattutto se si hanno più figli.

Bellezza e gusto per la vita: queste due parole fanno da cornice all’impegno educativo delle vostre scuole. Come si traducono nelle scelte gestionali e organizzative?

Innanzitutto, nella cura degli ambienti: uno studente deve sentirsi accolto e trovare un ambiente accogliente. Questo spiega il profondo impegno, sostenuto in questi anni, per rinnovare le strutture, dotandosi anche di strumenti innovativi. Il gusto per la bellezza non si può solo raccontare, si deve vedere e toccare. In secondo luogo, abbiamo voluto trasmettere questo sguardo a tutto il personale, perché non è solo compito del docente presentare il gusto del vivere, è anche il modo con cui, per esempio, ti accoglie ogni mattina il portinaio. O per il personale amministrativo è la modalità e l’attenzione con cui si ascoltano e si cercano di aiutare le famiglie che si presentano. Ma questo vale anche per il personale della refezione o delle pulizie. È la prerogativa di come ciascuno è richiamato a vivere il suo lavoro.

Quest’anno è stato un anno particolare e difficile, caratterizzato dalla pandemia del Covid. Che lavoro “dietro le quinte” ha dovuto affrontare il Consiglio di amministrazione? E che frutti ha dato questo lavoro?

Quando è scoppiata l’epidemia, è stato come risvegliarsi di colpo davanti a una responsabilità. Abbiamo subito detto che la scuola ci doveva essere, perché altrimenti sarebbe stato come tagliar via una parte di sé nel vissuto dei ragazzi. È stato come un riprendere in mano tutto per mantenere, attraverso ovviamente nuove modalità, il rapporto con i nostri studenti. Il secondo passaggio è stato coinvolgere dirigenti e insegnanti, soprattutto per ripensare – ed è stato un lavoro molto impegnativo – la didattica a distanza delle primarie. Un cambiamento che non poteva basarsi sulla ripetizione di cose già fatte, ma sulla ricerca di strade nuove. E la risposta di tutti è stata carica di un grande entusiasmo.

Scuola e famiglia: il Covid come ha cambiato il loro rapporto, visto dal suo punto di osservazione?

All’inizio le famiglie sono rimaste spiazzate. In realtà, ascoltandole, lavorando sulle proposte, passando del tempo con coloro – attraverso comunicazioni frequenti, diverse Zoom call suddivise per classi e un rapporto mai interrotto dei loro figli con i docenti – ci siamo resi conto che la richiesta non era tanto quella di non pagare parte della retta, ma di essere accompagnati di fronte a una solitudine improvvisa e imposta. Quando le famiglie hanno scoperto che potevano contare sulla scuola, il paradigma si è ribaltato, nessuno si è sottratto alle responsabilità.

Che cosa vuol dire oggi gestire una scuola paritaria con più di mille studenti e 700 famiglie? Quali sono i problemi maggiori?

Nel vivere una responsabilità, che ha ovviamente una sua fatica, perché gestire una scuola richiede tante energie, che cosa cambia e fa sì che questa fatica non diventi l’orizzonte di ogni giornata, ma la condizione con cui si è chiamati all’azione? La differenza sta nello scopo che uno ha: è il desiderio che questa opera non venga meno. E per non venire meno è necessario che ci sia Qualcuno che è con te e qualcuno con cui si condividono insieme le cose che si fanno, senza doverle affrontare da soli. Questa posizione va ripresa ogni giorno: ogni giorno bisogna rimettersi in gioco, soprattutto in questo frangente, con il Covid che può stravolgere l’organizzazione degli spazi o della didattica dalla sera alla mattina.

Molte paritarie fanno fatica e rischiano di chiudere. Che cosa servirebbe per aiutarle davvero?

Le scuole paritarie hanno bisogno anche di un aiuto pubblico. Il Miur ha dato risorse extra, riconoscendo anche il valore del ruolo che le scuole paritarie hanno giocato in una situazione difficile e complicata, a cui nessuno poteva sottrarsi: molta innovazione didattica è arrivata proprio dalle paritarie. Questo riconoscimento non può però essere una tantum, ma deve continuare, perché le scuole hanno bisogno di stabilità, di un orizzonte in cui investire. E non va dimenticato, alla luce della situazione dei concorsi pubblici, che le paritarie sono i grandi formatori tirocinanti della scuola pubblica. Anche questo va riconosciuto.

(Marco Biscella)