Vorrei inserirmi nell’interessante articolo di Luisa Ribolzi, intitolato “La svolta che manca sulle scuole paritarie”, con alcune osservazioni, per cercare di uscire dal generico.
Penso, infatti, che non basta insistere nel ripetere alcune questioni di principio, come ha fatto anche Ernesto Galli della Loggia, nello stesso giorno, sul Corriere della Sera. Occorre cominciare a dare nome e cognome a quelle forze che impediscono, nei fatti, l’attuazione di quanto viene auspicato da anni dagli esperti della materia. Allora vorrei fare qualche nome e cognome.
1) Che cosa impedisce che venga attuato quanto previsto dalla legge 62/2000 per l’attuazione del “sistema scolastico nazionale”? Risposta: una cultura e una politica stataliste che pervadono la cultura e la politica dominante, che, quindi, vede con sospetto che venga definitivamente riconosciuto il ruolo insostituibile delle scuole paritarie. Statalismo che ha vari volti, che vengono da molto lontano, con aspetti anche incomprensibili.
In tema di scuola anche i cosiddetti “liberali” sono statalisti, perché spesso sono portatori di una cultura inspiegabilmente anticattolica, per cui le scuole paritarie sono viste come un pericolo, in quanto per lo più sono di origine cattolica (che poi siano ancora cattoliche è un altro tema da affrontare).
In piena campagna elettorale, il segretario Pd, Enrico Letta, ha lanciato un altro messaggio di impronta statalista, quando ha proposto che i figli vengano affidati, per la loro educazione, allo Stato per ben 15 anni consecutivi, e cioè dai 3 ai 18 anni. Insomma, non riusciamo a scrollarci di dosso questo preconcetto statalista, che, di fatto, impedisce ogni riforma che ci avvicinerebbe di più a quanto avviene in Europa. Tanti adoratori dell’Europa, infatti, non lo sono più quando si parla di scuola. Occorre, dunque, sapere che c’è un nemico molto preciso con cui confrontarsi e non basta lamentarsi.
2) A costo di farmi qualche nemico, penso che occorra anche dire che ogni seria riforma scolastica è, di fatto, impedita dalla presenza pesante e incombente dei sindacati, che sono i veri “padroni” del ministero dell’Istruzione e che costituiscono il muro più solido contro ogni riforma. Essi sono andati ben oltre la loro funzione, che sarebbe quella di tutelare il lavoro e il conseguente stipendio. Si intromettono in modo pesante nel merito di questioni che, di per sé, dovrebbero essere di esclusiva competenza della politica, la quale mostra qui tutta la sua debolezza (seconda solo alla debolezza dimostrata in tema di giustizia). Se si vuole fare qualche passo avanti, occorre che ciascuno si metta a fare il proprio lavoro, con la propria responsabilità.
3) Luisa Ribolzi si riferisce giustamente al “valore della libertà di educazione da parte delle famiglie”. Giusto, anzi sacrosanto. Il problema è che, finora, troppi, anche tra i cattolici, hanno bellamente dimenticato il contenuto dell’articolo 30 della Costituzione, che riconosce alla famiglia e solo alla famiglia (non allo Stato) il diritto di educare i figli. Come viene dimenticato il successivo articolo 31, che obbliga la Repubblica tutta ad agevolare “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”.
Dal combinato disposto di questi due articoli dovrebbe derivare, con tutta evidenza, che la libertà di educazione dovrebbe essere assicurata e aiutata con “misure” che riguardino direttamente la famiglia e non le scuole in quanto tali. In 70 anni, invece, il mondo cattolico, e non solo, ha trattato la materia solo e unicamente sul versante del finanziamento agli istituti scolastici (peraltro ridicoli) e non ai genitori. Anche le “grandi” scuole cattoliche non lottano perché vengano aiutate le famiglie, anche perché hanno già dei clienti “ricchi” (ma solo quelli).
Un mio caro amico mi dice sempre che oggi san Giovanni Bosco non potrebbe frequentare una scuola dei salesiani! I cattolici, che tanto parlano di povertà, dovrebbero sapere che i poveri, oggi, non possono frequentare le scuole cattoliche. L’unico che ha tentato di cambiare le cose è stato Roberto Formigoni, quando, in Lombardia, ha istituito il “buono scuola”, che permetteva alla famiglia di operare una reale scelta educativa per i propri figli. Si potrebbe pensare anche ad altri strumenti, ma la direzione dovrebbe essere quella. Siamo pronti ad una battaglia di questo tipo? O ci rassegniamo all’esistente, contro ciò che prevede l’articolo 30 della Costituzione?
4) Luisa Ribolzi fa riferimento, oltre che alle competenze disciplinari, a “quelle competenze variamente definite come socio-emotive e non cognitive, che sono essenziali per una crescita globale delle persone”. Tema interessante, che dovrebbe essere affrontato senza pregiudizi ideologici. Ma, a caldo, mi farei da subito qualche domanda. Si dovrebbe affrontare tale tema solo in presenza di una effettiva libertà educativa, che dia la possibilità ai genitori di scegliere quali fattori “socio-emotivi” possano essere comunicati ai propri figli. In presenza dell’attuale monopolio statale, la questione diventa molto delicata, soprattutto se si vogliono tenere i figli a scuola dai 3 ai 18 anni. Educazione di Stato per tutti? E la libertà? E tra le materie socio-emotive vi sarebbero anche quelle imposte (magari per legge, come stava per avvenire) dalla cultura gender?
Ho posto tutte queste domande nella speranza che almeno la cultura cattolica sappia trovare celermente un punto comune di giudizio da sottoporre a chi ci governa. I problemi della scuola non possono più attendere, visto che “la scuola italiana è un colabrodo che perde da tutte le parti”. Dovremmo fare lo sforzo di abbandonare la lamentela, in favore di proposte positive, anche se scomode a qualcuno.
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