2 maggio, ora di supplenza: ne mancano 16, conigli in fuga da una verifica. I superstiti sono pulcini pigolanti in vista della contrattazione con l’insegnante dell’ora successiva: “miserere nobis, accetti i volontari”. Un branco mi accerchia, implorando suggerimenti strategici; altri tre sono già votati alla causa del martirio: cercano di ficcarsi in testa le nozioncine del libro, ripetendole a memoria come pappagalli.
Eppure ieri era l’1 maggio, non è che mancasse il tempo per studiare: ragazzi, perché non dirsi le cose come stanno? È che di questa materia non importa niente a nessuno. Vigliaccheria e fibrillazione sono escrescenze di una malattia più profonda che si chiama disinteresse, estraneità, malavoglia. “Quello che ci manca si chiama desiderio”, vado ripetendo da anni con le parole di Gaber. Proviamo ad affrontare il problema alla radice: cosa c’è di bello e di vero in queste pagine?
Niente, il problema non si pone. Ci dev’essere un gusto strano a giocare al gatto e al topo. A tanti ragazzi piace essere sorci, e a tanti insegnanti piace piazzare trappole di formaggi. Il livello umano sarebbe un altro, mi pare chiaro: è quello del perché. Piuttosto che scappare e inseguire, non sarebbe meglio se una scintilla di bellezza illuminasse l’altrimenti insopportabile dovere, facendo intravedere il gusto e il senso all’orizzonte della fatica?
Ma l’abitudine scolastica è una cappa di ottusità: certi argomenti vanno studiati, il perché lo si dà per scontato; siccome però scontato non è, la voglia di conoscere – e anche di vivere – si consuma, e i ragazzi a scuola non si presentano. Gli insegnanti si imbestialiscono, e i criceti continuano a girare sulla loro ruota, senza capirsi mai, ognuno nella propria bolla, in un’imbarazzante incomunicabilità fra sordi e muti.
Sgretolata l’etica del dovere, non è più relegabile sullo sfondo la domanda: perché vale la pena alzarsi dal letto, venire a scuola, impegnarsi, vivere?
L’insegnante non può limitarsi a spiegare l’imprescindibile crisantemo coltivato in Kenya da cui si ricava un insetticida di nome piretro, ma deve mostrarne il significato. Idem per il Rinascimento, altrimenti quelle rimangono solo pagine (troppe, difficili, inutili), che servono solo alle verifiche, le quali servono solo ai voti. Trappole per topi, appunto.
Esistono anche formaggi non avvelenati, anzi ci sono argomenti meravigliosi. Come sono arrivati a ingurgitare la bellezza solo perché dovrebbero, senza godersela? Qualche colpa l’avremo anche noi insegnanti, se nella bocca dei ragazzi la poesia, la filosofia, la scienza risultano rancide. Ci vorrebbero mastri casari…
Mentre mi infervoro, però, i ragazzi mi ignorano: “lei ha ragione, prof, ma non è il momento”. Non è mai il momento. Ci sono sempre altre emergenze. Anche del senso, come di questa materia, non importa niente a nessuno. Nemmeno il quotidiano bollettino di feriti e dispersi dall’aula, la valanga di disturbi psicologici e alimentari, i tagli sulle braccia o un suicidio ogni tanto riescono a far considerare come vitale il bisogno di senso. Se fossi armato del bastone dei voti, allora sì le pecorelle ascolterebbero il mandriano. Ma un uomo disarmato non merita l’attenzione di bestioline sotto tiro.
Eppure nel cuore di una marea di ragazzi la vita pesa come una palla di piombo: lo studio appare un’attività contronatura, senza gusto e senza senso, almeno finché, andando avanti, non si placano per assuefazione. Per ora ci si lamenta, ma quando chiedi seriamente “cosa c’entra con te quello che studi?”, la si scambia per una domanda retorica: “eh, infatti, prof, non c’entra niente”. Così sull’insensatezza si mette una pietra sopra; i buoni voti, poi, sortiscono l’effetto placebo.
È un lamento che non diventa domanda, ricerca, impegno, che non cerca cura: anche perché raramente trova dottori o diagnosi. A parte i narcisi abbagliati dalla luce che loro stessi emanano nello stagno delle proprie sbrilluccicanti classi e iniziative, gli altri la fanno facile: “te lo dico io qual è il problema, questi ragazzi non si sanno organizzare, non studiano volta per volta”.
Non che abbiano torto: effettivamente inglese lo studiano una volta ogni due mesi, e così storia. Del resto concordare le interrogazioni programmate offre due mesi di pausa sul piatto d’argento. Vallo a spiegare poi, che è più ragionevole seguire questa spiegazione di fisica anziché studiare per la verifica di scienze dell’ora dopo e ritrovarsi fra due mesi a rincorrere l’argomento di fisica di stamattina. “Ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva”, direbbe Manzoni.
I ragazzi non si organizzano, d’accordo. Ma perché non si organizzano? Vogliamo scavare dentro i fenomeni e cominciare a interpretarli? Perché non studiano volta per volta? Anzi, perché non studiano? o perché studiano fingendo? perché non vengono?
Qualcuno ha ancora la lucidità di non limitarsi ai sintomi: perché mai dovrei organizzarmi se di questa materia non me ne importa niente? Domanda sacrosanta, da scrivere sui muri delle aule, purché apra un dolore, e cerchi risposte. Domanda inconfessabile, perché nemmeno davanti alla sparizione o allo spegnimento di un ragazzo è facile incontrare un adulto che si metta in discussione.
La verità è che, per organizzarsi, ci vuole un perché: qualcosa di straordinario, qualcuno che mi aspetti. Pasolini intitolò una sua raccolta Trasumanar e organizzar, rubando un verbo al Paradiso dantesco. Occorre “trasumanare”, vivere qualche ora di scuola che sia “umana troppo umana”.
È un appello urgente: in un mondo che – dentro e fuori da scuola – vivacchia e se la cava, abbiamo la vertiginosa responsabilità di risvegliare la domanda di senso e magari di offrire un barlume di risposta. Servono più che mai persone che vivano il gusto dell’istante, o ne denuncino fragorosamente la sua mancanza.
Si precipitino a sirene spiegate, a donare questo sangue che manca, a iniettare dosi di umanità. Senza trasumanare, non torneremo umani. E continueremo l’infernale rincorsa dei gatti e dei topi.
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