“Gennaio al liceo” potrebbe essere il titolo di un film: va in scena l’inferno delle verifiche, dei calcoli di fine quadrimestre e dell’insensatezza. Per un mese non si guarda ad altro: gli insegnanti devono riempirsi la cesta di voti e gli studenti se le devono “togliere davanti”. A chi si ferma a riflettere, sfugge il perché di tale tourbillon. Che senso ha, in effetti, vivere la vita come un susseguirsi di ostacoli che bisogna lasciarsi alle spalle? Togliersi storia, togliersi fisica, togliersi italiano, e domani togliersi davanti gli esami universitari e poi il lavoro e poi magari i figli e anche la moglie… togliere, togliere, per ottenere cosa, alla fine dello slalom? Buttarsi sul divano? “Carpe diem”, la realtà è lì per te: vuol essere abitata, non sorpassata.



Gli insegnanti svolgono più che mai due sole operazioni: o spiegano o interrogano. E sentono di aver raggiunto il risultato quando la somma di spiegazioni più interrogazioni risulta a posto. Il programma è salvo, il registro è salvo. Li saluti, in corridoio, ma vanno di fretta; osi trattenerti dopo il suono della campanella e ti bussano alla porta, perché a gennaio anche un minuto è letale, quando si sono programmate le interrogazioni quattro studenti alla volta, ché incombono le medie (conticino da terza elementare, del tipo 6½+7½=14; 14:2=7, eseguito in automatico dal registro elettronico, ma chissà perché occasione di sospiri e reciproche occhiate di commiserazione), vanno smaltiti pacchi di compiti da correggere e alla fine potremo guardare compiaciuti il tabellone dei voti come un album di figurine completato.



Difficile trovare qualcuno che si scosti un millimetro dal percorso preimpostato studio insensato/interrogazione bimestrale/caramellina di ricompensa sul registro. È come precipitare nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, quando il protagonista pirandelliano entrava nella casa di produzione cinematografica: “Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un’apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch’esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone, di diventare anch’io una mano e nient’altro”.



Arrivi il primo giorno di gennaio e li vedi tutti lì, con gli occhi a pesce lesso per il fuso orario accumulato durante le dormite natalizie, mentre provano a ficcarsi in testa appunti e schemini per la verifica dell’ora successiva. Riparte il Truman Show: durante le vacanze, praticamente nessuno è stato sfiorato dal ricordo di quelle astruserie che ora gli ingolfano il cervello; adesso tutti si agitano, come fosse normale. Non hai chance, è così che si fa. E anch’io dovrei fare lezione, in qualche modo, sperando di resistere al vortice.

Potrei continuare con lo stesso autore, oppure iniziarne un altro, o interrogare come fan tutti, o sorprenderli con qualche fuoco d’artificio (letture, racconti, canzoni, prospettive), o improvvisare dialoghi o proporre attività. Vorrei però qualcosa di vero. Se alla scuola togliamo le sopracitate ipotesi, cosa rimane? Chiariamoci le idee con una formula elementare: scuola – (a + b + c…) = x. Cos’è x? È la vita, sei tu, le domande e le ferite insopprimibili. Spiegando o interrogando o sperimentando, vorrei inseguire questa x.

Intanto è già mercoledì, terzo giorno dopo la ripresa. Alle spalle 18 giorni di vacanze: oggi però si paventa un’interrogazione pericolosa, quindi… assenze strategiche, qualcuno ha improvvisamente cambiato classe, a una ragazza salgono le lacrime agli occhi perché ieri il fidanzato è andato via, un’altra crolla su se stessa, anche se un attimo prima rideva. Niente è come sembra, si affaccia ancora l’incognita che vai inseguendo. Una vita che si nasconde oltre i radar delle cattedre, segregata quasi sempre fuori dall’aula, quella in cui vorresti discretamente entrare, al di là del filo spinato, che filtra in certi messaggi clandestini: “Sono ancora sui libri, dopo tutta una giornata a scuola. Mi preparo a un compito di inglese di cui non capisco il senso: imparare a memoria qualcosa per poi scordarla esattamente dopo il compito. Ho paura di andare male, tra l’altro. E domani sarà un altro giorno che passerò sui libri, per preparami a un altro compito e così via…. L’unica cosa che mi chiedo però è l’utilità, dove sta il senso?”.

Abbiamo letto per settimane I Malavoglia, e quindi oggi… no, niente verifica, ragazzi, questa era gratis. Esiste ancora qualcosa di gratuito, qui dentro, a maggior ragione ora che è gennaio e sembra una folle perdita di tempo. Oggi al massimo domande da bar, quelle che a scuola sono vietate: cosa pensi? è valsa la pena leggerlo? ti ha cambiato qualcosa? e ora che l’abbiamo letto? ti è venuto in mente a Natale, a Capodanno, nei giorni buttati oppure euforici?

Tu vorresti sapere cosa resta, nella vita ordinaria, di quel che si fa a scuola. Anche se, a dire il vero, vale piuttosto il contrario: è la vita che vale la pena portare a scuola, altrimenti non c’è scuola. Quel che ti interessa, insomma, non è tanto verificare quel che sanno, ma quel che se ne fanno. Tu vai cercando, in altri termini: una vita piena di domande; non solo: che quella vita piena di domande irrompa in aula. Troppa grazia, cosa pretendi? Sì, ma che miseria è accontentarsi di “coltivare il proprio giardino”? Dove le mettiamo queste assenze, questa strisciante disperazione, questa tessera che manca sempre al puzzle completo, questa x?

Nei corridoi i colleghi in ora buca ti chiedono se hai già completato le verifiche e inserito tutti i numerini, e tu sei lì con ’sta benedetta incognita che non si risolve mai, e la farsa proprio non ti va giù. Come se non bastasse, un bel giorno gli automi si truccano e vendono fumo agli Open Day, dopo essere andati porta a porta come testimoni di Geova ad annunciare il proprio vangelo; si pubblicizzano sui social, sui carrelli degli ipermercati, nelle sale d’attesa dei pediatri, si contendono la fetta di clientela. E si leccano i baffi aspettando i soldi del Pnrr, in pieno delirio distopico, mentre tu, sordo alle “magnifiche sorti e progressive”, vorresti proteggere le ginestre che stranamente continuano a fiorire nei deserti delle classi, sotto il vulcano dormiente in cui ribollono mancanza di gusto e di senso, dispersione implicita o esplicita, débâcle dei prerequisiti elementari, demenzialità di un votificio che non serve né a chi è fuori né a chi è dentro e di un informazionificio che è puro doppione di internet.

Si potrebbe ricominciare dalla bellezza: vi rendete conto, ragazzi, che questi versi sono belli? Dico a voi… c’è nessuno? Per dire “bello” ci vuole un io. I loro occhi non mentono: lasciano intendere che no, non riescono più a pensarsi come persone anziché come studenti, perché saranno anche belli, ma non c’è bellezza che non arrivi già infarcita di compiti da fare e voti da ricevere e medie da sistemare e prestazioni da assicurare e tempo da non perdere e certificazioni da conquistare e genitori con cui sbraitare. È come quando la domenica c’è un bel sole, ma tu non ti accorgi che ti sta chiamando: e allora non ti alzi, dormi fino a tardi, perché uscire lo senti come un dovere, e poi con chi? Vorrei prenderli per mano stamattina, scendere le scale e portarmeli al sole, contagiarli di una scintilla di gusto.

Il mondo sta morendo non tanto di ignoranza quanto di insensatezza (e la prima deriva dalla seconda): non mancano voti e nozioncine, ma qualcosa che viene prima di ogni verifica e di ogni programma e di ogni materia e di ogni pagella. Penso sempre a Gaber, a come taglia corto su ogni analisi: “Non ha senso elencare problemi e inventar nuovi nomi / al nostro regredire che non si ferma continuando a parlare / Amore, non è più necessario / se quello che ci manca si chiama desiderio”.

È questa la x di cui andare a caccia facendo lezione domani mattina, la casella mancante a qualsiasi tabellone dei voti.

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