Caro direttore,
sul Corriere della Sera del 2 ottobre c’è un articolo di fondo di Sabino Cassese, presidente emerito della Consulta, il quale da decenni domina tutti i dibattiti sulla Costituzione e la pubblica amministrazione.

Nel suo editoriale – “La scuola e i concorsi da fare” – Cassese difende la ministra Azzolina che insiste nello svolgere un concorso riservato per 32mila posti di insegnante a cui sono iscritti 64mila aspiranti.



A frenare sono i due partiti maggiori, Pd e Lega. La Lega parla di stabilizzazione dei supplenti senza specificare come questa possa avvenire.

Risulta facile dunque la vittoria concettuale del professor Cassese, che invoca il concorso come vero e limpido modo per scegliere i migliori. Infatti chiunque non sia a conoscenza dei dettagli che contano, pensa al concorso come una chiamata pubblica e trasparente dove si accede liberamente e dove vincono i migliori. Così la dipinge Cassese. Ma così non è.



Il professore invoca anche l’art. 97 Cost. che dice: “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.

Curiosamente, ma non per chi scrive, Cassese omette nella sua citazione le ultime sei parole, che consentono deroghe al principio del concorso, deroghe attuabili tramite una semplice legge ordinaria.

In una situazione di emergenza come quella attuale sarebbe quindi possibile e logico “stabilizzare” i supplenti storici con una semplice legge ordinaria. Perché la Lega non lo dice? Non lo dice perché non studia la Costituzione o peggio ancora, non la usa per determinare la sua linea politica.



L’inspiegabile omissione di Cassese sta nel fatto che l’urgenza vera del professore e del quotidiano che lo ospita non pare essere la governabilità della scuola, ma – di fatto – la difesa assoluta del principio del concorso nazionale.

Cassese non dice inoltre che il concorso riservato è già un’eccezione rispetto alla obiettività e nobiltà del concorso. Il professore non nomina nemmeno il concorso per soli titoli, che esclude prove specifiche ma esamina solo elementi pregressi. Dunque, perché questa difesa della sacralità del concorso nazionale?

In un modo o nell’altro, c’è un fatto che appare di per sé esplicativo: sul concorso pubblico nazionale è stata costruita e si alimenta la vigente meridionalizzazione della scuola.

Con il concorso nazionale i laureati al Sud sono sempre favoriti, perché accanto alle risultanze delle eventuali prove scritte o scritte ed orali intervengono anche i titoli, che sono sempre sovrabbondanti nel Mezzogiorno dove anche i voti di laurea sono puntualmente molto superiori rispetto al Nord a parità di preparazione.

Il concorso nazionale permette inoltre a chi regala posti ai disoccupati amici di avere il controllo sulle scadenze e le pratiche di accesso alle prove. Se infatti i concorsi fossero di istituto o di ambito territoriale cadrebbe subito il sincronismo nazionale. Centinaia di località con tempi diversi sarebbero sede di mini-concorsi e quindi inaccessibili a tutta la platea dei concorrenti amici.

Cadrebbe inoltre la trasferibilità nazionale degli assunti, che al pari dei dipendenti delle amministrazioni comunali sarebbero solo titolari dell’ambito del concorso.

Sono cose semplicissime da comprendere e fa specie che i grandi opinionisti, tecnici e commentatori di ogni parte politica facciano finta di ignorarle.

L’Italia continua ad essere un paese pieno di ipocrisie sulle quali si regge la condizione miserevole dell’apparato statale, costruito non per fornire servizi ma per erogare stipendi ai disoccupati amici.

L’attuale condizione di tutto il pubblico impiego richiede, come atto preliminare, il superamento di tutti gli imbarazzati silenzi di maggioranza e opposizione che glissano su questi temi.

Per quanto riguarda poi la gestione delle supplenze con le quali si giustifica la formazione costante del precariato, ho scritto più volte che la soluzione al problema consiste nell’affidarle a enti esterni alla scuola o a partite Iva, semplificando così la chiamata e riducendo i costi. Ed evitando l’accumularsi di “diritti” da parte di persone inadeguate alla funzione docente.