Molte problematiche complicano l’inizio di questo anno scolastico: accesso agli edifici con il green pass, nomine dei supplenti, protocolli sanitari, attenzioni per la sicurezza e altro ancora. Tempo ed energie sono assorbite dalla necessità di rispondere con tempestività e pertinenza a queste incombenze, ma resta sempre, più o meno sottesa, una domanda che, soprattutto all’inizio, come accade per ogni esordio di esperienza umana, si impone: dove stiamo andando? Qual è l’orizzonte di senso? Quali le finalità che vogliamo perseguire? Quale dovrebbe essere il volto di una scuola?



Impossibile rispondere a questi interrogativi nel breve spazio di un articolo, occorrerebbe una riflessione articolata e sistematica da documentare almeno in un saggio. Si potrebbe però abbozzare un’iniziale risposta identificando la scuola come luogo della cura, di un’educazione alla stima della vita, impresa certamente non facile in un contesto culturale pervaso dalle tentazioni del nichilismo.



Per sgombrare subito il campo da eventuali equivoci è bene far notare che con il termine cura non si vuole evocare alcun riferimento alla medicalizzazione. Non si tratta di imbrigliare la singolarità e la peculiarità dell’io, comprese le sue fragilità, con una certificazione, quanto di far crescere in tutti il desiderio di imparare e la progressiva scoperta del proprio talento.

La scuola viene spesso accusata di non saper riconoscere i talenti e di conseguenza di non contribuire alla loro crescita. Il talento infatti non è semplicemente qualcosa di innato, un dono divino o della natura, ma un potenziale che può essere educato.



“Il grande Wolfgang Amadeus Mozart, per tutti esempio del genio per natura, è stato, in realtà, sottoposto da suo padre ad un intensivo e faticoso esercizio musicale per raggiungere determinati obiettivi ed i suoi stessi prodigiosi spartiti spesso richiedevano correzioni, revisioni e talvolta rielaborazione” (R. Capobianco, “La scuola dei talenti nella società delle competenze”). Anche lo straordinario genio di Mozart dunque ha avuto bisogno, per venire alla luce, di guida e di esercizio tenace.

Quali espressioni di cura può mettere dunque in atto la scuola per valorizzare i talenti di ciascuno?

Innanzitutto favorire una visione dell’io, uno sguardo rivolto all’interezza della persona, fatta di ragione e affezione, di volontà mossa da un ideale, da una passione. Il talento non cresce all’interno di una visione standardizzata, di alunno medio, che mortifica la singolarità di ciascuno e che non pone al centro la ricerca del senso. Lo studente mobilita le sue energie, si impegna per far crescere il talento, accetta la fatica solo all’interno di un orizzonte di senso, che non rimandi in un domani lontano la scoperta del perché valga la pena far fatica oggi. Orizzonte di senso che deve essere offerto da adulti impegnati con la loro vita e quindi capaci di guardare con simpatia i passi ancora incerti dei giovani a loro affidati. Docenti appassionati della disciplina che insegnano, desiderosi di coinvolgere gli studenti in un lavoro di ricerca, di sperimentazione, fin dai primi anni della scuola, che rifuggano dal ricorso esclusivo alla lezione frontale, a favore di una metodologia didattica capace di valorizzare l’errore e che stimoli un apprendimento argomentato, consapevole dei nessi tra le conoscenze. Una didattica in cui i curricoli non siano espressione di un enciclopedismo senza priorità e rigidamente chiusi nel disciplinarismo. Spesso infatti “le materie sono state divise in elementi semplici che vengono presentati uno ad uno, secondo un ordine logico, l’allievo è condannato a uno sguardo miope, limitato al dettaglio, e il significato gli sfugge” (B. Rey, Ripensare le competenze trasversali, FrancoAngeli, 2003).

La scuola luogo della cura è chiamata a guidare gli studenti, fin dai primi anni, in un prezioso lavoro di educazione dello spirito critico, senza il quale si cade nell’omologazione, nella sudditanza alle fake news, nella adesione a slogan riduttivi, che non sono in grado di comprendere la complessità della realtà.

Il Collegio docenti di una scuola, i consigli di classe, i team degli insegnanti devono avere cura dunque di progettare percorsi disciplinari personalizzati e”avvalersi di un vasto gruppo di strategie che offrono la possibilità di valorizzare la storia di ciascuno, le diverse intelligenze, le emozioni e le competenze che caratterizzano ogni soggetto, affinché possa raggiungere una forma di eccellenza cognitiva che sviluppi nel migliore dei modi possibili le proprie capacità ed i propri talenti” (M. Guspini, Complex Learning Learning Community, Roma, 2008).

La personalizzazione dei percorsi è condizione senza la quale il talento resta escluso dalla scuola e la sua esclusione spesso comporta per lo studente una demotivazione che progressivamente lo allontana sempre più dall’avventura della conoscenza. “Chi ha il talento della danza (…) dovrà trovare nella scuola una mappa di competenze culturali quanto più possibile inclusiva, per evitare di considerare il proprio talento eccedente rispetto alla proposta formativa della scuola (…) Il talento della danza suppone un rapporto con la propria corporeità, con la propria sensorialità, con il proprio senso dello spazio. Tale rapporto è naturale, ma è atteso a divenire culturale. E la scuola non è afona rispetto a questo tema. Danzare significa anche conoscere, comprendere, apprendere. Avere il talento della danza è preliminare rispetto al diventare esperti danzatori. Ma occorre avere a che fare con i setting culturali insiti nella storia, nella musica, nella geometria, nella fisica, Quando parliamo di setting culturali, intendiamo riferirci non all’assetto lineare e nozionistico della materia scolastica, ma alle logiche disciplinari profonde che animano un sapere, ai nuclei fondanti, ai concetti – chiave a ciò che consente ad uno studente di maturare a tal punto questa o quella disciplina di studio da trovarne il nesso con il proprio talento (M. Muraglia, “Il talento a scuola”, in Le nuove frontiere della scuola, n. 26/2011).

La scuola luogo di cura intercetta il talento e lo promuove non escludendo dal suo orizzonte le character skills perché, solo per fare qualche esempio, volontà, motivazione, capacità di relazione empatica sono requisiti essenziali per la sua valorizzazione. La vocazione di un luogo di cura pone al centro la relazione tra le persone che a scuola non sono simmetriche, perché l’adulto ha il compito non solo di essere tramite della ricchezza della tradizione culturale che viene dal passato, ma anche di testimoniare ai più giovani il cammino personale di cura che nel tempo ha fatto nella sua esperienza personale.

La proposta educativa prima di essere un’azione rivolta verso gli altri, in particolare i più piccoli, è innanzitutto un paziente lavoro che l’adulto deve fare con se stesso, se vuole guadagnare una pienezza umana e quindi diventare credibile per gli altri.

Il talento cresce in una socialità, attraverso incontri che progressivamente nel tempo svelano, sostengono e danno strumenti per portarlo a compimento e in una relazione tra pari, dove non sia perseguita la competitività, ma il riconoscimento dei tempi e delle peculiarità di ciascuno. L’esercizio di questa socialità è la vera palestra di acquisizione delle virtù civiche per i cittadini adulti del futuro. L’immagine del genio chiuso nel suo studio e lontano dal mondo può essere un’evocazione romantica, ma poco rispondente alla realtà. Il talento infatti ha bisogno di incontri significativi e di una socialità tra pari in cui possa essere accolta e valorizzata la diversità di ciascuno.

La scuola luogo di cura personalizza i percorsi, ma non livella verso il basso, è esigente, sfida la ragione, educa ad argomentare, a essere critici, rifugge dalla ripetizione meccanica. Favorisce esperienze, gesti che aprono alla conoscenza dell’extra-scuola per offrire occasioni in cui l’io di ogni studente possa essere interpellato a scoprire il proprio talento.

La scuola luogo di cura può essere il baluardo di una promozione del talento che guida verso la realizzazione piena di sé, verso la valorizzazione della singolarità dell’io all’interno di una società che ricerca il talento solo come strada per il successo, per una visibilità destinata a finire presto, come accade nei diversi talent show televisivi.

Quanto si è cercato di delineare in questa breve riflessione investe ovviamente tutti gli ordini di scuola, ma in particolare, per la sua vocazione orientativa, il segmento della scuola secondaria di primo grado. Potrebbe essere quindi molto interessante leggere quanto emerso di recente sulla criticità della scuola media, come segnalato nel rapporto della Fondazione Agnelli, anche alla luce della pedagogia del talento.

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