Normale, tutto normale. Hanno tredici anni e mezzo, frequentano da appena tre giorni il liceo, eppure sanno già cosa fare, sono nati scafati: vendono ai compagni di classe i biglietti per la serata fuori città, il secondo sabato di scuola. Non c’è bisogno che gli eroi del triennio provino a cooptare i piccolini: il potere è capillarmente radicato all’interno di ogni aula. Nessun desiderio di conoscersi, non un “vediamoci” né un “venite a casa mia” né un “facciamoci una partita” e neanche un “chissenefrega di te”: omologazione già cristallizzata, il friccicolio di mostrarsi fin da subito perfettamente identici, per nulla distinti, a quelli più grandi, che a loro volta sono identici, per nulla distinti, a quelli di tutte le altre scuole italiane. Fosse almeno una libertà conquistata dal basso, invece è un modello piovuto dall’alto, a cui bisogna obbedire, altrimenti rimani fuori dal branco.



E vedessi le mamme premurose, con quanta trepidazione accompagnano le figliolette scosciate, e poi vanno a riprendersele a notte inoltrata, fra le scie di vomito delle compagne sorridenti: quelle, per intenderci, che poche ore prima e poche ore dopo prendono 9 alle verifiche sull’iperuranio di Platone o sui dilemmi amletici di Shakespeare, quelli che diligentemente preparano il test di medicina o saranno imprenditori e architetti. Normale, tutto normale.



Eppure questo sabato di settembre i conti non tornano. Le ambulanze per chi è andato in tilt etilico sono ordinaria amministrazione, un po’ meno la rissa con i bulletti della piazza di spaccio presentatisi con tanto di tirapugni. Non c’è distinzione, ovviamente, fra i liceali figli di papà e i maranza dei quartieri degradati: frequentano gli stessi locali, smaniano per le stesse prede. La striscia di sangue sulla pista per una bottiglia di vetro spaccata in testa passa come nulla fosse sotto gli occhi dei nostri ragazzi. Al massimo un video, da postare sui social. E i buttafuori li cacciano tutti via, poco dopo mezzanotte, neanche il tempo di arrivare.



Il lunedì si rientrerà in classe, e riprenderà la farsa. Si interrogherà su qualcosa che non ha la benché minima attinenza con la vita, sul registro elettronico si staglierà il voto e le ansie saranno placate: il risultato è salvo, la socialità è salva, la futura carriera pure. Tutto procede regolarmente, siamo a posto, sani e salvi.

Tutti tranne una. Ad appena otto chilometri, sulla costa del nord barese, nelle stesse ore di quel sabato c’è scappato il morto: in una discoteca analoga un ventunenne ha sparato una diciannovenne. “Assurdo a Ladispoli”, titolarono mezzo secolo fa i giornali quando due diciassettenni ferirono “mortalmente a rivoltellate un loro coetaneo perché non gli aveva dato le candele della sua motocicletta che servivano alla loro”. No, replicava Pasolini, non è affatto assurdo: “quel pezzo doveva essere intitolato Normale a Ladispoli”. “Non lo sanno i giornalisti di Paese Sera che l’eccezione è trovare nelle borgate romane un diciassettenne senza rivoltella?”.

Non lo sapete, voi, che è normale che qualcuno entri alle feste con le armi addosso? e che è normale che si tracanni fino a svenire? e che è normale che un diciottenne si avvinghi a una tredicenne? Delinquenti o nichilisti cambia poco, criminali o criminaloidi è questione di centimetri e di gradazioni, tanto è normale che dopo una settimana di scuola senza senso si rivendichi il diritto a una serata di svago senza senso. L’intera estate piccoli e grandi si sono intronati fino ad assuefarsi al rumore del nulla; le mamme si fidano di quei postacci manco fossero oratori. È normale, che male c’è, ci vanno tutti. E io son qui a far la figura del vecchio bigotto che borbotta contro l’universo mondo.

Succede, d’accordo, ogni tanto una coltellata, uno sterminio familiare dopo la PlayStation e il compleanno, qualcosa di folle sì, chi lo nega, ma gli episodi sono irrelati, giacché tutto in fondo va avanti normale. E i miei figli no, non insinuiamo, loro che c’entrano, sono diversi, come le serate che ogni liceo si organizza a circuito chiuso e sono sempre un successo. Tanto mica è successo a noi, mica ho sparato io, mica ho picchiato io, mica ho molestato io. Erano otto chilometri, erano otto metri, erano ottomila anni luce dalla tua percezione. Gli insegnanti non sanno, i genitori non sanno. Vivono su Marte. Ma è normale, in effetti, tranquilli, ch’è tutto normale. Ed è questo che è atroce.

È normale che mai accada, e nemmeno si speri, che l’incontro con una materia, una poesia, un insegnante, un compagno, un amico incida fino a cambiarti l’esistenza. Ed è anche normale che ci si abitui alla invece benedetta delusione dei primi giorni, quando ti stringe la gola quel miscuglio di noia e pochezza che è la vita e che è la scuola, dove spesso non c’è nemmeno qualcosa di particolare che sia tanto irrimediabile, eppure alle volte tutto appare così piccolo e insignificante rispetto al tuo cuore bambino che s’aspettava chissà cosa. Te ne farai una ragione, fino a non sentire più alcuno stridore e a lasciar perdere i sogni irrealizzabili. Coraggio, siamo al liceo e devi crescere, conformarti al cinismo di tutti: è così che ci si diverte.

Poi tornerà, di tanto in tanto, un’amarezza indicibile, che però si perderà, non trovando la sponda di un coetaneo, di un adulto, di un libro, che son tutti latitanti. Allora il mondo intero s’affretterà a spegnerle con gli estintori del buon senso, quelle lacrime, e saggiamente ti consiglierà di farti forza, per tornare a essere come tutti, non sia mai una goccia di differenza. Non ti diranno che è proprio dentro quel disgusto indicibile che balena la salvezza, per chi sa ancora piangere e urlare, detestare il deserto, implorare stravolgimenti.

Intanto tu, collega mio, lunedì sei entrato in classe e hai tranquillamente spiegato o interrogato. E lo hai fatto perché non ne sai niente: non sai che cosa ha visto sabato, e non sapendolo non aiuti un alunno a saperlo, non gli dai parole per rappresentarlo e quindi decifrarlo, non leghi il sabato al lunedì, la vita alla scuola, lo squallore alla messinscena.

Mi accuserai, leggendomi, di essere il solito apocalittico, ché la vita è bella e ai tuoi che si son maturati ed eran tanto carini hai augurato un futuro radioso di soddisfazioni con i messaggini glucosati e le fotine strazzamutande. Tu credi che stia esagerando e generalizzando, e ignori beato che magari il volontario che ti arriva alla verifica orale ha ceduto al ricatto di scambiare questa prodezza scolastica per un biglietto gratis a quella famosa serata dove, se non scappa il morto alla punta dell’iceberg, non scappa di certo il nulla del resto dell’iceberg.

Quest’innocenza didattica è colpevole, perché mantiene parallele le rette, perché non entra a gamba tesa nelle quotidiane voragini, perché non spieghiamo la nostra materia partendo dai loro inferni, perché le nostre risposte non hanno a che fare con le loro domande, perché i nostri discorsi non riaprono le ferite incerottate, perché teniamo lontane le sfere del pubblico e del privato, come i ragazzi, i genitori, gli insegnanti e i presidi esigono. Quando lo sdoppiamento schizoide è la prassi, viene sepolto il desiderio di conquistarsi un volto unico, e al più toccherà la trita altalena dello studio alternato a un pompino, dell’evasione alla disperazione, dell’arcobaleno alla psichedelia, di Geolier alla pistola.

E ti dirò, allora, se non ti sei offeso già abbastanza, che siamo assassini pure noi – altro che clan, episodi e la nostra coscienza lavata – se, mentre spieghiamo e interroghiamo, non li aiutiamo a leggere che l’uccisione di una ragazza durante una serata o la striscia di sangue e bruttura poco più in là non sono che i fiori mostruosi di un terreno seminato a normalità, la tragedia che sbava dalle pustole di mille sabati sera buttati via e altrettanti lunedì mattina buttati ancor peggio; se non andiamo mostrando che esiste al mondo qualcuno per cui il “così fan tutti” è troppo poco, e che grida con tutta l’anima che questa serata dev’essere la più bella della storia umana altrimenti ti ammazza, e questa lezione sfondi il muro dell’abitudine e finalmente regali al cuore un orizzonte che parli la sua lingua, che è quella dell’immenso.

 

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