Ogni volta che cambia il governo c’è da chiedersi chi lo fa fare a questo o quel ministro di prendersi la responsabilità di un dicastero come l’Istruzione, fonte di rogne a non finire e con la prospettiva di passare difficilmente alla storia se non in senso negativo, vedi i vari Azzolina, Bussetti, Giannini, Bianchi, solo per citare alcuni tra i più recenti, con banchi a rotelle accatastati nelle cantine e tentativi di riforma abortiti sul nascere.
Ora è la volta di Giuseppe Valditara, personalità che a dire il vero mostra formazione culturale e competenze solide, che sta cercando il bandolo della matassa di una scuola statale ridotta quasi ovunque a quel diplomificio di cui fino a due-tre decenni fa veniva accusata (spesso a ragione) la sola scuola privata. Se da un lato, però, sembrano arrivare solo plausi alla riforma dell’istruzione tecnico-professionale, che a legge varata passerà da 5 a 4 anni, ma con prolungamento formativo di 2 negli Istituti tecnici superiori (che attualmente garantiscono l’inserimento nel mondo del lavoro), dall’altro ecco lo scontro fra chi plaude e chi affossa il nuovo valore del voto in condotta (la definizione ufficiale è “voto sul comportamento scolastico”). “La riforma responsabilizza i ragazzi e restituisce autorevolezza ai docenti” ha detto Valditara a proposito del fatto che nella scuola secondaria di primo grado, la media inferiore, il 5 comporta la bocciatura tanto alla classe successiva quanto all’esame di Stato, mentre alla secondaria di secondo grado, media superiore, si aggiunge il fatto che con un voto pari a 6 lo studente dovrà presentare un “elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale” che, valutato dal consiglio di classe, servirà a decidere l’ammissione alla classe successiva. Infine, il 5 comporterà la non ammissione all’esame di maturità e solo con il 9 o il 10 lo studente avrà diritto al massimo dei crediti utili a fare media nel voto finale per la maturità.
Bene appare la motivazione che ha mosso il provvedimento a fronte di comportamenti sempre meno adeguati a un consesso civile, ma il sospetto è che arrivi – per usare un modo di dire di quando a scuola si andava solo per studiare e, quindi, anche per diventare adulti in tutti i sensi – quando i buoi son fuori dalla stalla. Non solo perché siamo curiosi di sapere quanti studenti abbiano mai visto un bue in vita loro o sappiano cosa sia, ma perché la metafora torna utile a dire d’una scuola che non può essere più quella dei nostri nonni e che segue (o precede, qui si aprirebbe un dibattito) il cambiamento dell’intera società.
Se un tempo non molto lontano ogni suo componente seguiva ruoli e limiti precisi, con relativi riconoscimenti l’uno verso l’altro, oggi tali confini sono venuti meno e, anziché rispettare le decisioni del docente (non sempre, sia chiaro, giuste e inoppugnabili) sappiamo di genitori pronti a prenderlo di petto (a volte non solo in senso figurato) a denigrarlo in pubblico, ad adire alle vie superiori; di studenti, anche molto giovani, che sentendosi le spalle coperte mettono in discussione voti, giudizi, anche contenuti delle lezioni; degli stessi dirigenti che, per non avere rogne con i livelli superiori, spingono a promozioni facili e a minimizzare anche fatti gravi pur di non mettere in cattiva luce il presunto buon nome della scuola. Anche per questo l’iniziativa del ministro andrà incontro a forti delusioni (prima tra tutte l’accoglimento di una valanga di ricorsi ai Tar), come di chi, pur armato delle migliori intenzioni, pretende di cucire una toppa anche bella sopra un vestito ormai logoro.
Perché se il vero problema è che frotte di ragazze e ragazzi riescono ad ottenere il diploma di maturità pur essendo privi dei rudimenti con cui leggere, scrivere, far di conto in maniera accettabile (prova ne è, lo abbiamo scritto altre volte, che negli atenei si allestiscono corsi brevi di grammatica per chi si accinge a scrivere la tesi di laurea) insieme a un comportamento che sia civile, se il vero problema è questo (ma iniziamo a dubitarne) allora non sarà un 5 o un 6 a far cambiare strada alla studentessa o allo studente cui la disciplina (orrenda parola caduta quasi in disuso) fa difetto e i contenuti delle discipline (guarda caso, parola quasi identica alla precedente e con la stessa radice: ci sarà un motivo?) vengono a noia. Alternative? Tra chi propone di abolire il voto numerico per sostituirlo col giudizio scritto tipo “non sa ancora fare questo e quest’altro, ma ci riuscirà con un maggiore impegno” e chi elimina i voti sotto il 4 “per non demoralizzare il soggetto” (è già norma in provincia di Bolzano) non vediamo vie d’uscita per ridare dignità al mestiere di insegnante e a quello di studente.
Fermo restando che chi si trova in difficoltà per gravi motivi familiari o ambientali ha il diritto di essere seguito e incoraggiato in ogni modo, per esperienza sappiamo che nella maggior parte dei casi tali gravi motivi non esistono e incoraggiare gli adolescenti sulla via, tanto in uso, del “ci penserà la vita a chiedere il conto” non funziona. Per due evidenti motivi: perché li convince che tutto in fondo gli è dovuto, per cui tanto vale non impegnarsi (piano educativo) e che sempre meno la vita chiede il conto famoso, dal momento che “la vita”, cioè la società, è ad ogni tornata generazionale composta dagli stessi studenti usciti dalla scuola del “tutti promossi”.
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