Rimbalzano in questi giorni sulle pagine dei giornali le prime anticipazioni sul nuovo anno scolastico. E, come al solito, grande è la confusione sotto il cielo. Da una parte il Comitato tecnico-scientifico, che ritiene necessario mantenere tutte le misure di prevenzione già adottate lo scorso anno (mascherine, distanziamento, aerazione, disinfezione sistematica, ecc.); dall’altro il ministro, che assicura – non si sa su quali basi – che la scuola si aprirà regolarmente, tutta in presenza e con tutti gli insegnanti in cattedra fin dal primo giorno.
Più della contraddizione insita in queste prese di posizione, colpiscono due aspetti: il primo, che si tratta di questioni già tutte note e dibattute molte volte in questo anno e mezzo di crisi sanitaria. Niente è cambiato e sembra che la verifica – mille volte avvenuta – dell’irrealizzabilità di certe promesse non abbia scalfito le certezze di chi le formula. Il secondo, che – fra una dichiarazione e l’altra – non si pone mano ad interventi che modifichino nella sostanza i termini del problema. E il gioco dell’oca riporta ciclicamente alla casella di partenza.
È stato molte volte sottolineato che uno dei nodi da sciogliere è quello dei trasporti, sui quali nelle ore di punta è impossibile mantenere il distanziamento sociale. L’unico rimedio che si è saputo immaginare lo scorso anno sono stati gli ingressi scaglionati di due ore, con conseguenze pesanti sull’organizzazione delle lezioni e sulla vita familiare degli studenti. Che cosa è cambiato da allora?
Ancora: il piano vaccinale. Nonostante gli ottimi risultati generali, rimangono scoperte due aree, entrambe sensibili per la questione di cui ci occupiamo. La prima è quella degli adolescenti, quelli che frequentano le scuole secondarie superiori, che sono nella quasi totalità non vaccinati e che rappresentano – per frequenza di contatti sociali e per stili di vita – la fascia della popolazione in assoluto più a rischio. Come mai non è stato fatto nulla per coinvolgerli in modo massiccio nella somministrazione dei vaccini? La seconda è quella dei docenti, molti dei quali – nonostante gli appelli – non risultano ancora vaccinati: ed anzi molti sono quelli più o meno dichiaratamente ostili all’idea. Cifre ufficiali non ve ne sono, ma le stime che circolano parlano di almeno 250mila docenti ancora non coperti: cioè uno su tre all’incirca. Sarebbe stato opportuno prevedere per loro qualcosa di analogo a quanto è stato previsto per il personale sanitario: fino all’eventuale sospensione dal servizio in caso di rifiuto.
Invece, si continua a cincischiare sulla pretesa impossibilità giuridica di obbligare i singoli a vaccinarsi. Discussione surreale, quando si scende dai principi astratti alle conseguenze concrete di queste enunciazioni. A parte che esistono già delle vaccinazioni obbligatorie per legge e che quindi, anche sul piano dei principi, l’assunto risulta debole. Ma poi sembra evidente che ci sono posizioni lavorative le quali, per loro natura, devono essere trattate diversamente da altre: un conto è lavorare da soli in un ufficio, un altro è lavorare quotidianamente a contatto con decine di ragazzi, soprattutto quelli delle età più a rischio. È così difficile comprendere che non si possono trattare situazioni tanto diverse con principi così astratti ed anelastici?
Altro elemento: gli uffici periferici dell’amministrazione, quella che dipende dal ministro, hanno costretto le scuole a formare gli organici con le regole dei tempi ordinari. Vale a dire con classi anche di 30-31 studenti. Non servono doti profetiche per capire che – con questi numeri – il distanziamento ritenuto tuttora necessario dalle autorità sanitarie risulta irrealizzabile: se non, ancora una volta, con la rotazione nella presenza e quindi con il ricorso alla didattica a distanza.
Insomma, sembra che tutti gli attori le cui decisioni impattano in un modo o nell’altro sul risultato finale abbiano fin qui agito come se a risolvere il problema dovesse essere qualcun altro. L’idea stessa di una sinergia necessaria quando diverse linee di azione convergono nello stesso servizio sembra assente dal dibattito. I trasporti sono affare degli enti locali o delle Regioni; i vaccini della struttura commissariale e del ministero della Salute; gli organici del ministro dell’Istruzione, a sua volta commissariato di fatto da quello dell’Economia. E, in mezzo, le scuole, che ricevono tutti questi input contrastanti e sulle quali ricade alla fine l’onere di far quadrare il cerchio.
Già: le scuole, della cui autonomia ci si ricorda solo quando si tratta di scaricare su di esse la responsabilità di andare in qualche modo avanti, nonostante a monte i diversi attori facciano di tutto per complicare le cose. Eppure un rimedio, almeno parziale, ci sarebbe: e tale da non richiedere risorse o interventi aggiuntivi.
Uno degli elementi che hanno complicato il quadro nei mesi passati risiede nel fatto che si è partiti dal presupposto di dettare dal centro ogni minuta prescrizione operativa e di farlo in maniera uniforme per tutte le 40mila sedi scolastiche. È ovvio che, con queste premesse, tutto il convoglio viaggerà alla velocità della nave più lenta: ovvero, fuor di metafora, che le regole saranno le più restrittive possibili, per adattarsi alle situazioni di maggiore criticità. Poco importa che magari quelle norme risultino sovradimensionate per tante altre situazioni.
La realtà invece è che i contesti in cui operano le singole scuole sono molto diversi; e, se si lasciasse loro un po’ di autonomia reale, molti problemi potrebbero essere risolti in loco con modalità flessibili. È ovvio che alcune garanzie minime debbono valere per tutti i casi: ma si tratta di un insieme di precetti igienici abbastanza elementari. Tutto il resto, dagli orari alle regole organizzative interne, all’eventuale flessibilità degli ingressi, alla misura del ricorso alla didattica a distanza ad altro ancora dovrebbe essere lasciato alla valutazione di chi conosce dall’interno e da vicino le singole situazioni. Con il corollario di un mandato implicito: date le condizioni locali e fermo restando il rispetto dei livelli minimi di precauzione, si deve operare per erogare la massima misura del servizio e la massima qualità possibile della didattica. Senza però l’incubo costante dei decreti e delle direttive centrali e senza lo spauracchio di dover rispondere per ogni minima difformità rispetto al modello unico.
Questa mancanza di fiducia nei confronti degli operatori sul campo è una delle cause per cui, anche al di là della scuola, la pubblica amministrazione annaspa. Invece di dettare le regole del gioco, poche e chiare, e di valutare i risultati finali, ci si ostina a regolare minutamente tutto dal centro. Con il risultato di partire già dall’inizio con il minimo comun denominatore possibile e con la certezza di subire per strada le ulteriori perdite dovute all’inadeguatezza di quei parametri rispetto a molte delle situazioni concrete. Ma l’emergenza finisce con l’essere, sempre di più, la foglia di fico con cui si copre l’inadeguatezza delle amministrazioni centrali rispetto alla funzione strategica di indirizzo e controllo, che dovrebbe essere loro propria. Ottenendo al tempo stesso il risultato, non meno negativo, di deresponsabilizzare i funzionari locali rispetto agli esiti dei processi loro affidati solo nominalmente, ma irretiti e vincolati da infiniti precetti.
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