La Campania è diventata, suo malgrado, un esempio di apparente “cinismo” istituzionale relativamente alla scuola e al suo funzionamento a distanza. Scrivo “suo malgrado” perché continuo a leggere interventi come quello della collega Guariglia che non mi sembrano, però, coerenti sul piano delle analisi e delle recriminazioni, che credo siano abbastanza ingiustificate se sono fondate le premesse.



Sono un docente che sta lavorando a Napoli, come tutti, non a scuola ma a casa. A che pro scrivere un’ovvietà?

Perché continuare a leggere di “scuole chiuse” (dato reale) ma anche di “catastrofi educative” mi pare decisamente fuori misura se non ci sono alternative credibili alla didattica a distanza in una fase evidentemente lunga.



Per non parlare di proposte come quella agitata, senza alcun fondamento giuridico e pratico, da un genitore (Giorgio Fantino) che vuole addirittura ridurre la retribuzione ai docenti contrari al ritorno in presenza il 7 gennaio. A quando pure il rogo?

Non sono Massimo Galli, meno che mai ho la sua autorità scientifica ma posso dire che aveva ragione da vendere nell’intervento di cui il Sussidiario ha dato conto qualche tempo fa?

Non essendo un infettivologo ma solo parte in causa, come insegnante, posso, però, provare a sviluppare il suo ragionamento con i dati dell’esperienza diretta. Quella che manca al ministro Azzolina che fa ormai i tour quotidiani in televisione per convincerci del contrario, e cioè di essere perfettamente in grado di conoscere la situazione reale delle scuole.



Anche quando il ministro va in tv, come da Myrta Merlino qualche tempo fa, per provare a smentire le notizie ed a rispondere a quelle domande che anche Max Ferrario ha posto sul Sussidiario, la sensazione netta è che ad analisi scientifiche si sostituiscano prese di posizioni ideologiche.

Galli aveva certamente ragione quando parlava di “slogan politico” a proposito della ipotizzata riapertura delle scuole il 9 dicembre, decisione per fortuna rinviata a gennaio. Peraltro anche altri esperti (da Galli a Pregliasco fino allo stesso Brusaferro) negli ultimi giorni sono sembrati più pronti a valutazioni realistiche sulla reale fattibilità del ritorno, senza “se” e senza “ma”, il 7 gennaio secondo la previsione dell’ultimo Dpcm e della recente Ordinanza ministeriale che ha ridotto la percentuale trionfalistica del 75%.

A me pare che il rapporto stretto fra le decisioni relative alla gestione delle scuole ed i dati della diffusione del Covid dovrebbe essere l’unico elemento considerato dal decisore politico. Anche questa potrebbe sembrare un’ovvietà, ma lo è realmente?

È di tutta evidenza, invece, che il decisore politico italiano, almeno a livello centrale, ha deciso finora la ripresa delle attività scolastiche in presenza e sembra orientato a decidere la riapertura delle scuole a gennaio, per dirla con Totò e con Galli, a prescindere dai dati reali.

Per carità di Patria non voglio parlare dei trasporti o di condizioni e strutture esterne alle scuole. Bontà sua, la collega Guariglia non nega che in Campania la situazione dei trasporti non è migliorata ma, se mai, perfino peggiorata. Ed allora come si può pensare di fare a gennaio quello che non si è potuto fare a novembre?

Ho promesso, però, di non soffermarmi su trasporti e sanità. E svilupperò il mio ragionamento solo sull’ambiente interno, quello che anche a parere della collega dà ogni possibile garanzia.

Ma è davvero così? Se quella della mancata valutazione dei dati reali sembra un’affermazione forte ed infondata, allora provate a seguire i ragionamenti che farò.

La scuola è il luogo più sicuro, dove con l’applicazione di misure e parametri precisi, ci si garantisce dal contagio. Diamo per buona questa affermazione, spesso ripetuta come un mantra, a partire da settembre, dal ministro Azzolina per giustificare la decisione di riaprire e mantenere aperte le scuole fino a quando alcune decisioni locali (Campania, Puglia) non hanno costretto a rivedere la scelta di “scuole aperte a prescindere” addirittura prima di Natale.

Per giustificare, però, quest’affermazione sulla scuola come luogo sicuro bisognerebbe avere e diffondere in trasparenza dati certi sulla presenza di un bassissimo numero di contagiati nelle scuole italiane ma anche dimostrarne, attraverso un minimo di tracciamento, l’origine esterna all’ambiente scolastico. In mancanza di questo, le affermazioni sulla scuola sicura o sono fideistiche o sono veicolo di propaganda, lo slogan politico di cui parla Galli.

Che siano affermazioni al più fideistiche lo ha dimostrato lo stesso ministro, nella trasmissione domenicale di Myrta Merlino (alla quale vogliamo far sapere, a proposito di accuratezza, che Lucia Azzolina non è ancora un dirigente scolastico e quindi non ha mai svolto quella funzione al contrario di quanto detto, incautamente, dalla giornalista) con una difesa che appare risibile se non fossimo di fronte a una tragedia.

“Non è compito del ministero dell’Istruzione raccogliere dati sul contagio… al ministero non abbiamo competenze per analizzare dati epidemiologici…” pure parziali, aggiungo io.

Basterebbe questo a far porre alcune domande semplici e cioè: se il ministero dell’Istruzione non ha fra i suoi compiti istituzionali raccogliere ed analizzare dati, a che pro una raccolta a campione e per giunta non validata dall’ufficialità di contagi certificati dalle Asl? Al solo scopo di fornire cifre rassicuranti, comunque, non raccolte con criteri scientifici?

Seconda domanda: ma se il ministro ammette le Asl in difficoltà o addirittura assenti, su cosa si regge l’assunto che le scuole non hanno favorito la crescita dei casi”?

Ed una terza domanda ancora: il ministro conosce lo studio di Livio Fenga, uno statistico dell’Istat (studio svolto a titolo personale e che non coinvolge, però, l’istituto di statistica) che afferma, sia pure con una serie di cautele ed eccezioni, una correlazione per periodi tra apertura delle scuole ed aumento dei casi?

Non volendo solo citare le recenti notizie giornalistiche che parlano di dati non solo non resi pubblici (Wired li ha ottenuto con un accesso civico) ma che gli stessi, a sentire lo stesso ministro Azzolina a L’aria di domenica, non erano nemmeno dati completi per tutte le scuole, non omogenei e non analitici inviterei, allora, ad una indagine empirica che ognuno di noi, insegnante o genitore con i figli frequentanti, può fare oggi o aver fatto nelle scorse settimane.

Certo, questo non può significare attribuire dignità di “statistiche attendibili” ad un sistema di raccolta dati assai vicino al pollo di Trilussa, ma se a livello di singola scuola si verifica che non è possibile sapere con certezza nemmeno quanti studenti risultano positivi al Covid, negativi dopo l’infezione o contatti stretti di sicuri positivi, come si fa a riaprire le scuole?

Perché non è possibile sapere? Perché o i dati provengono dalla Asl o provengono dalle famiglie. Tertium non datur.

Che i dati possano provenire, in forma certa, organizzata, attendibile e completa, dalle Asl è negato dall’evidenza, dichiarata e conclamata, che il tracciamento nella seconda fase in Italia non ha funzionato affatto; altrimenti, come ha insegnato la Corea del Sud, non avremmo avuto i numeri attuali ed i focolai diffusi. Del resto se anche un esperto come Crisanti appena qualche giorno fa ha chiesto di conoscere i dati relativi alle scuole, forse avere dubbi è legittimo, ad onta delle idee del signor Fantino.

Non mi risulta, peraltro, che ci sia alcun canale comunicativo diretto ed informatizzato tra le Asl e le scuole in nessuna parte d’Italia. A cosa servirebbe averlo? Per lo meno per far sapere alle scuole, prima dell’eventuale riapertura, cosa e chi controllare al rientro in presenza.

Peraltro siamo o no il Paese dove manco le banche dati organizzate ed istituzionali comunicano fra di loro?

Ed ancora, se avessimo certezza dei dati sul contagio effettivo (intendo positivi sintomatici ma anche e soprattutto asintomatici) nelle scuole provenienti, in alternativa, dalle famiglie, non leggeremmo, come è capitato qualche tempo fa su l’Espresso, di scuole dove con quattro contagiati in una classe la stessa non veniva messa in quarantena se non dopo un periodo di tempo sufficiente a favorire ancora la diffusione del Covid.

È esperienza personale di docente in due classi in quarantena ben prima della chiusura delle scuole campane, quella di non aver avuto alcun contatto dall’Asl competente neanche per accertare, con un minimo di intervista, quanto potessi essere stato “contatto stretto” . Lo si escludeva a priori solo sulla base della nota distanza fra la mia cattedra ed i miei studenti. Come se poi, tanto per fare un esempio, gli studenti non avessero portato i foglietti di giustifica alla cattedra ma me li avessero lanciati a distanza a mo’ di aereoplanini di carta.

Passiamo all’ipotesi di dati raccolti a partire dalle segnalazioni anche spontanee delle famiglie.

Ci sono casi descrivibili (per esperienza diretta e non raccontata) in questi termini: casi di contagio in famiglia, magari tamponi positivi anche di studenti e la scuola cosa ne sa? Ben poco, perché funziona un meccanismo che può partire da due dati anche questi facilmente verificabili in modo empirico.

Ci sono famiglie, in caso di contagio di un membro, non in grado di supplire autonomamente (con i tamponi effettuati privatamente) alle carenze delle Asl.

Magari in assenza di sintomi quelle famiglie possono non aver tenuto i figli a casa. È successo ed è stato anche teorizzato in qualche caso scoperto per puro accidente.

Ci sono famiglie che, invece, al dato certo del tampone positivo del figlio hanno ritenuto di non segnalare la circostanza alla scuola con la motivazione dichiarata: “a che pro, mio figlio è a casa e non può contagiare nessuno”.

Mi chiedo: all’eventuale rientro in presenza il 7 gennaio, cosa ci salverebbe dal possibile contagio? La sola assenza dello stato febbrile? Ma se il positivo, pur senza febbre,  non ha ancora raggiunto la negativizzazione e se la sua positività non è stata nemmeno notificata alla scuola, cosa succederà al suo rientro a gennaio?

In ultimo un’ulteriore considerazione relativa alla Did/Dad nel momento del ritorno in presenza al 75% previsto dall’ultimo Dpcm (o al 50% è lo stesso): qualcuno considera che con classi eventualmente divise fra casa e scuola far operare i docenti con le strutture informatiche della scuola è un collo di bottiglia rispetto all’utilizzazione di postazioni casalinghe che sfruttano reti diverse e più performanti?

Galli parlava di slogan politico: come dargli torto?