Poche settimane dopo l’avvio dell’anno scolastico, in Campania la Regione ha ordinato la chiusura delle scuole e l’avvio della didattica a distanza.
Fiumi di parole sono state scritte, con analisi dei pro e dei contro, alla ricerca di un bilanciamento tra diritto alla salute e diritto all’istruzione. Con il trascorrere delle settimane, con il crescere del numero di tamponi positivi, in una situazione sempre più critica del sistema sanitario regionale e sotto una pressante comunicazione dei media, la popolazione ha quasi accettato come inevitabile il sacrificio richiesto agli studenti campani, soprattutto nei grandi centri e in particolare Napoli, anche se non sono mancate voci che ne hanno sollecitato la riapertura.
In una situazione instabile abbiamo dovuto dare priorità ad altro, all’economia del Paese, per non imporre alla popolazione ulteriori sacrifici difficilmente sostenibili.
Eppure la lettera di Giovanni sul Corriere della Sera dell’8 dicembre dà voce a tanti ragazzi che come lui, senza la possibilità di relazioni “incarnate”, denunciano una tristezza e una mancanza di fiducia nel futuro: “Adesso ci dicono che da gennaio si torna a scuola, che entro giugno o luglio avremo un vaccino, e altre stupidaggini, che mi spingono solo ad essere meno fiducioso e più depresso. Perché tanto so cosa accadrà… non faremo altro che ritornare a un altro lockdown. Ciò mi rende depresso, triste, spaventato. Ai corsi on-line non capisco più niente, i miei compagni e/o amici si isolano, i prof non insegnano più nel modo giusto, ma non è colpa loro. Io non riesco più a disegnare, a giocare ai video-giochi o ad ascoltare la musica. Vorrei solo urlare perché non ce la faccio più, vorrei non avere più paura di rimanere solo. Se tornerò felice come una volta? Non credo…”.
Forse in questo momento storico i soggetti più fragili della nostra società sono proprio loro – ragazzi che come Giovanni hanno dovuto rinunciare alle relazioni quotidiane – più dei cosiddetti “lavoratori fragili”, più degli anziani, o almeno quanto questi ultimi. Perché ci sono danni materiali evidenti che il virus sta causando, ma esistono anche danni immateriali, oggi difficilmente quantificabili in termini di Pil, debito pubblico o costo del sistema sanitario. Sono danni che pesano in egual misura o forse di più sul nostro Paese, in termini di futura convivenza civile e di sviluppo economico.
Diverse ricerche hanno provato a quantificare la perdita economica a medio-lungo termine legata alla chiusura della scuola. Alcuni studi americani che hanno messo sotto osservazione l’impatto della chiusura delle scuole sull’apprendimento e le conseguenze future in termini di reddito/benessere sono giunti a proiezioni disastrose, soprattutto per i più piccoli e le famiglie meno facoltose, con un allargamento della forbice sociale.
Gli altri Paesi europei hanno chiuso nel momento di maggiore difficoltà negozi e attività commerciali, ma hanno lasciato aperte le scuole. Miopia o lungimiranza?
In Italia il Comitato tecnico-scientifico ha riconosciuto la necessità di tornare alle lezioni in presenza, il governo dopo tante discussioni ha fissato la riapertura dopo le vacanze di Natale.
E la Campania, che all’inizio dell’anno scolastico è stata la prima regione a chiudere, cosa farà? Sono forse gli studenti campani “figli di un Dio minore”? Già si inizia a parlare della terza ondata, del picco influenzale a gennaio. Ci vorrebbe la lealtà di ammettere che il problema non è delle scuole, della loro organizzazione che è stata curata in maniera meticolosa per garantire una riapertura in sicurezza. Ammettere che in Campania c’è un problema cronico nel sistema dei trasporti e in quello sanitario – che l’epidemia sta solo mettendo in evidenza – e che è a causa di questi problemi mai affrontati in modo adeguato in passato che oggi ai nostri studenti sono richiesti sacrifici maggiori rispetto agli altri studenti italiani.
E per questa incapacità di gestione della cosa pubblica si sacrificano anche realtà che sono meno impattate dai problemi della grande città. La realtà del territorio campano è estremamente differenziata. Ci sono scuole in piccoli centri con pochi casi di Covid-19, che hanno aule e spazi a sufficienza. Vi sono grandi città come Napoli con ancora un alto numero di positivi, ma anche all’interno delle aree metropolitane le differenze tra gli istituti scolastici possono essere notevoli, in termini di spazi e raggiungibilità delle sedi. Se il problema è alleggerire i trasporti e il sistema sanitario, ci vorrebbe la lungimiranza di scelte differenziate, che non vadano a penalizzare in modo così drastico e indiscriminato il sistema scolastico di tutta la regione.
Perché non lasciare all’autonomia scolastica, costituzionalmente sancita, la libertà di fare le scelte ritenute più adeguate, di valutare in base alla propria specificità una opportuna didattica integrata (in presenza e/o a distanza), sostenendo le scuole con tavoli operativi locali che mettano insieme i diversi attori coinvolti? Sicuramente è più semplice decidere di chiudere tutte le scuole della regione, questo non richiede sforzi di pianificazione e programmazione del servizio. Ma chi ha le leve decisionali dovrebbe invece promuovere reali possibilità di incontro tra le amministrazioni locali (Comuni, Asl), uffici scolastici e istituzioni scolastiche, società di trasporti, perché si possano valutare caso per caso le condizioni di sicurezza, consentendo così di mantenere le scuole aperte lì dove ci sono gli elementi necessari.
Per chi insegna e incontra ogni giorno i suoi studenti attraverso una video-conferenza, questo è il tempo in cui far appello a tutta la propria creatività e voglia di comunicare il senso del fare scuola. Pur tra mille difficoltà si pone una grande sfida per ogni insegnante che non voglia rinunciare a una relazione educativa significativa, anche attraverso uno schermo.
Perché il grido di Giovanni non cada nel nulla.