Chiudere è un brutto verbo. Oltre all’idea concreta di sbarrare un’apertura, ha anche in sé il concetto del terminare, del porre fine, e indica un’azione meno momentanea, che arriva fino all’ostacolare, all’impedire, al fermare.
Giovedì sera, qui a Pompei, è stato così. Eravamo a scuola, a lavorare nella presidenza che abbiamo ricavato da un archivio, tant’è che i collaboratori scolastici la chiamano “presidenza piccola” perché quella “grande” è diventata un’aula. Ci serviva lo spazio, per i ragazzi. Stessa sorte è toccata alla sala professori, ai laboratori, al parcheggio in giardino. Non importa, ognuno è chiamato a combattere il Covid con le armi che ha. Un container ospita gli arredi che non volevamo lasciare alle intemperie. Quando passa tutto, riprenderemo a usare gli armadi, i tavoli da disegno, le cattedre. Non importa.
Sembra quasi che la nostra scuola, più spoglia, sia persino più bella. Ma chiusa no, dopo tanti sacrifici e fatiche intorno ai quali si è stretto questo popolo in cammino, chiusa non la vogliamo. Venerdì mattina era tristissima. Vuota. Estranea. Non ne faccio una questione sentimentale, di lacrimucce nemmeno l’ombra. Siamo solo arrabbiati.
Se nei mesi scorsi siamo stati seppelliti dalla fatica, oggi, sgobbando ancor di più, siamo certi che non si può affrontare un’emergenza annullando di colpo l’esistenza di un luogo. Da noi i ragazzi non si aggregano e rispettano le misure di distanziamento. Non schiamazzano, discutono e indossano la mascherina. Forse perché ci siamo posti nella prospettiva di essere i loro custodi, non i loro carcerieri. Un custode ti chiama alla responsabilità, tu lo capisci e lo segui.
Qualche giorno fa, entrando ordinatamente in fila, un ragazzone di 17 anni mi ha guardato negli occhi e mi ha detto, imitando il mio mantra giornaliero: “Preside, un po’ di pazienza…”. Oggi si è persa questa pazienza. Abbiamo sopportato la solitudine dei giorni d’estate per aprirla ’sta scuola, i giorni dei monitoraggi infiniti e delle richieste inascoltate, delle vuote discussioni senza effetti. Abbiamo sanificato, pulito, spostato, misurato. Sempre solo con le nostre forze. Poi sono arrivati i ragazzi. E con loro la paura, ma anche il volto del senso. Vi abbiamo scritto, telefonato, implorato di occuparvi dei trasporti pubblici. Ci siamo rassegnati a spostare in avanti gli orari di ingresso per non impattare i flussi di pendolarismo usuali. E non ci vuole la zingara per capire che le Asl sono in affanno, perché sempre con lo stesso personale mappano i contagi e fanno i tracciamenti e le scuole apprendono con ritardo quarantene e disposizioni.
Spendeteli così i nostri soldi, dateci referenti medici per le attività scolastiche, che nemmeno dovete farci una legge, esiste già, dal 1978; fate respirare gli ospedali e anche i nostri docenti, trasformati in referenti-Covid.
Abbiamo passato la notte di giovedì a predisporre un altro orario, a distanza, perché organizzare seriamente un servizio non è come gonfiare palloncini per le feste che non si possono fare. Non è la fatica che ci fa paura: siamo la Scuola, ci spaventa l’ignoranza.