Dopo un durissimo scontro in Consiglio dei ministri, il governo ha deciso che la ripresa dell’attività in presenza nelle scuole superiori, per il 50% degli studenti, avverrà a partire da lunedì 11 gennaio. Una data di compromesso tra chi, come M5s e Italia Viva, voleva riaprire il 7 gennaio e chi, come il Pd, chiedeva di rimandarla al 15 se non al 18 gennaio. Il punto di mediazione è stato trovato dopo un confronto molto teso. A complicare il quadro, poi, l’intenzione delle Regioni di andare in ordine sparso, tanto che Veneto, Friuli Venezia Giulia, Marche e Calabria hanno già deciso lezioni a distanza addirittura fino al 31 gennaio. La riapertura delle scuole è nel caos? Quali nodi vanno sciolti? Sono quelli di sempre, dai trasporti al tracciamento? Perché non si è intervenuti prima, visto che sono noti da mesi? E ora, con le curve epidemiologiche che calano a rilento, si corre anche il rischio di nuove chiusure? Ne abbiamo parlato con Sandra Scicolone, componente dello Staff Nazionale dell’Anp, l’Associazione nazionale presidi.



Sulla riapertura delle scuole superiori il governo ha trovato una faticosa mediazione: ripresa dell’attività in presenza, per il 50% degli studenti, a partire dal prossimo 11 gennaio. Le Regioni, poi, hanno deciso di procedere per proprio conto. Siamo già al caos?

Più che di caos, parlerei di stupore. E’ lo stupore il sentimento che accompagna la decisione, evidentemente di mediazione, assunta dal governo. Non solo: Marche, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Calabria hanno già deciso di riaprire il 31 gennaio.



C’è qualcosa che non quadra?

La domanda viene spontanea: i governatori hanno forse dati sulla pandemia difformi da quelli in possesso del ministero e del governo? E allora, cosa cambia dal 7 all’11? Il problema della scuola non è la scuola.

Che cosa intende dire?

La scuola è un luogo sicuro, al suo interno si rispettano le regole, dalle mascherine al distanziamento. Con un’immagine direi che la scuola è come l’occhio del ciclone, tranquillo, immobile, mentre è tutto attorno a roteare vorticosamente. Ecco, il problema è proprio tutto ciò che è al di fuori della scuola. Ma questo non è un problema sorto all’improvviso, è un delirio cui ancora non si è trovata soluzione, se non a macchia di leopardo, perché esempi virtuosi non mancano. Ma come Anp lo ricordiamo dalla scorsa estate: la cosa fondamentale è controllare la filiera che porta alla scuola.



In concreto?

I trasporti e il contact tracing, che è saltato del tutto da ottobre.

Non a caso trasporti, tracciamento e organici sono i problemi, secondo i sindacati, che rendono impossibile riaprire le scuole. Sono nodi che si conoscono da tempo. Non ci si poteva attrezzare prima?

Certo, ci si poteva pensare molto prima.

Perché non è stato fatto nulla? Chi oppone maggiore resistenza?

Fa resistenza tutto ciò che è attorno alla scuola e non è nella scuola. Da tempo chiediamo che i trasporti si adeguino, cioè che in quanto servizio si mettano al servizio della scuola. In realtà, in molti territori, non ovunque, il sistema dei trasporti ha mostrato una difficile permeabilità e una eccessiva rigidità nel rimodulare l’offerta.

Lei però citava prima che esistono casi virtuosi. Per esempio?

A Firenze, dove hanno messo a disposizione molti più mezzi di trasporto e hanno istituito la figura dei tutor, una sorta di steward che si preoccupa di vigilare sul corretto distanziamento sui bus o sugli assembramenti ai tornelli o alle varie fermate delle corse. Oppure a Milano, dove al tavolo con i prefetti si è deciso di scaglionare non gli ingressi a scuola, ma quelli delle attività produttive.

E sul tracciamento?

E’ uno dei problemi che ha impedito davvero il rientro in sicurezza dei ragazzi delle superiori, perché gli alunni del primo ciclo sono sempre stati in classe e noi sappiamo bene quanto sia stato difficile gestire le continue quarantene. Sul contact tracing abbiamo suggerito da subito il sistema a tappeto dei drive in, cioè i test antigenici rapidi per diminuire drasticamente i tempi della quarantena che hanno gravato moltissimo sulle attività didattiche e sull’organizzazione scolastica, soprattutto dalla metà di ottobre a tutto novembre, quando il tracciamento, dinnanzi all’inasprirsi della pandemia, è saltato completamente.

E oggi il nodo è ancora da sciogliere?

Il sistema di tracciamento rapido non solo è già nelle intenzioni del ministro, ma sta prendendo piede in molti territori. E questo dovrebbe diventare sistematico.

Sull’ipotesi di scaglionare gli orari di ingresso e di uscita degli studenti delle superiori sono stati fatti passi avanti?

Le rigidità sono sempre sbagliate, però bisogna guardare alla fattibilità. In una città di provincia lo scaglionamento non è assolutamente necessario, per i numeri del bacino di utenza, per le distanze eccetera. Diverso il discorso nelle grandi aree metropolitane. Prendiamo, per esempio, gli istituti professionali, che accolgono migliaia di studenti dagli hinterland e hanno un orario più ampio rispetto ai licei: ha senso far entrare i ragazzi alle 10 e dopo 6 ore di lezione, mangiando ogni giorno un panino perché le mense scolastiche non ci sono, farli uscire alle 16, quando magari devono prendere un mezzo pubblico per rientrare nei loro paesi non prima di un’ora-un’ora e mezza? Iniziano a studiare alle 19, alle 20? E anche facendoli entrare alle 10 e uscire alle 16 i mezzi pubblici saranno davvero in grado di gestire questa flessibilità oraria? Lo scaglionamento, per noi, è solo l’extrema ratio.

Che cosa propone l’Anp?

Occorre garantire quel cordone sanitario di cui parlavamo prima: tutti gli elementi esterni alla scuola non devono danneggiare la scuola stessa. In secondo luogo, è giusto lasciare la gestione dell’organizzazione ai dirigenti scolastici, i soli che in forza dell’autonomia e dei loro poteri organizzativi, di concerto con i sindaci, hanno piena contezza delle esigenze del territorio.

Ma non le pare che governo e Regioni hanno scaricato ancora una volta su scuole e dirigenti scolastici il peso delle scelte organizzative senza fornire indicazioni chiare?

La nostra sensazione è che sia soprattutto un problema culturale. Per mesi ci si è riempiti la bocca dicendo: bisogna dare nuovamente centralità alla scuola. Quando però veramente arriva il momento di dare alla scuola questa centralità, che merita e che le è connaturata in forza della sua stessa funzione educativa e di formazione del capitale umano del paese, tutto si sbriciola dinnanzi a soluzioni che francamente non hanno nulla a che vedere con la scuola. La centralità della scuola è una bandiera, ma in realtà la si sventola e basta. Ciò costringe i dirigenti scolastici a fare e disfare continuamente.

Immagino che riaprire una scuola non sia come schiacciare un bottone…

La riapertura è un’operazione complessa. Basti pensare allo sconvolgimento della didattica, che non è offerta di un servizio qualsiasi in un ufficio pubblico qualsiasi, è piuttosto un’offerta che presenta un alto grado di complessità per le sue implicazioni cognitive, meta-cognitive e relazionali. Non si può dimenticare, poi, che i ragazzi non sono pedine che si possono spostare, per di più in una situazione di pandemia. Infine, ci sono moltissimi docenti che possono avere più di una sede di lavoro.

Quanto incide la scuola sulla diffusione del contagio?

L’ultimo Rapporto diffuso proprio ieri dall’Istituto superiore di sanità dice chiaramente che solo il 2% dei focolai nazionali sono a carico delle scuole. Capisce bene che a fronte di otto milioni e mezzo di studenti e di un milione di addetti della scuola è una percentuale davvero risibile. Significa – lo ripeto – che la scuola è un luogo sicuro.

Le curve dei contagi e l’indice Rt faticano però a scendere. C’è il rischio che presto si tornerà a richiudere le scuole superiori?

Meglio aspettare ciò che dicono le autorità sanitarie prima di arrivare a questo. Certo che già essere zona rossa fa sì che la didattica in presenza sia sospesa. Il rischio di un continuo stop&go esiste. Noi vogliamo un rientro in classe definitivo, con le dovute garanzie, perché questo tira-e-molla non fa bene a nessuno.

Dovesse verificarsi una nuova chiusura, sarebbe a rischio la valutazione degli studenti?

Assolutamente no, perché nel decreto Milleproroghe, all’articolo 6 comma 3, là dove si parla degli apprendimenti, viene prorogata per l’anno scolastico 2020-2021 la norma, varata con il decreto Cura Italia, in base alla quale la valutazione periodica finale resta valida sia in caso di didattica in presenza che a distanza.

La norma recita così, ma Save The Children ha pubblicato un’indagine molto preoccupante sugli abbandoni scolastici in questo anno di chiusure e di Dad. Ragazzi stanchi, preoccupati e ansiosi: possiamo parlare di generazione perduta?

Sicuramente la differente organizzazione di attività scolastiche rispetto all’ordinarietà ha acuito la povertà educativa, che è senza dubbio uno strascico della situazione di grande difficoltà che sta vivendo la scuola. Detto questo, pur con i risvolti negativi legati soprattutto alle dinamiche relazionali, che stanno incidendo a fondo su molti adolescenti, non userei comunque l’espressione “generazione perduta”. Sono però fenomeni che occorre presidiare e governare con molta attenzione.

Secondo lei, non c’è una drammatica carenza di attenzione e programmazione sulla scuola da parte di tutta la politica italiana?

L’impressione è che per la politica in generale la scuola sia più un’occasione di narrazione ideologica che di impegno morale, etico dinnanzi al paese, tanto che arriva sempre un certo punto in cui diventa facilmente sacrificabile.

(Marco Biscella)