E’ Milano, oggi, il focolaio lombardo che diffonde il Covid, come dimostra anche la situazione drammatica di Monza, alle porte del capoluogo. Un focolaio che infetta chi arriva, ad esempio, dalla bergamasca, come ci spiega in questa intervista il dottor Claudio Bulla, medico di Assistenza primaria presso il distretto Isola Bergamasca-Ats Bergamo: “Un mio paziente che risulta positivo vive qui a Capriate da solo, senza famiglia, lavora in smart working, ma si è recato un solo giorno a Milano per accompagnare la madre a una visita oculistica. Sono convinto che si sia infettato proprio quel giorno”. Un cambio a 360 gradi, dunque, rispetto a marzo-aprile, quando la zona devastata dal virus era proprio la bergamasca e Milano era invece una sorta di isola felice: “Nelle nostre zone la pandemia che abbiamo vissuto la scorsa primavera ha permesso alle persone di sviluppare una particolare resistenza al virus, anche se non si tratta di anticorpi, crediamo sia questo il motivo per cui il Covid non sta ripetendo quanto successo allora”.
La situazione nella bergamasca è meno grave rispetto a marzo-aprile, ce lo può confermare?
Diciamo che non sono situazioni paragonabili, perché in primavera non avevamo i tamponi. Se li avessimo avuti allora, i casi sarebbero stati almeno dieci volte tanto. Quelli che abbiamo oggi, poi, sono molto meno gravi di sette mesi fa. Personalmente ho avuto tre casi ad agosto, cinque a settembre, sei a ottobre e dodici da inizio novembre, ma per nessuno è stato necessario il ricovero in ospedale, sono tutti gestibili a casa. Sono tutti casi più moderati: in primavera, quindici giorni dopo lo scoppio della pandemia, la stragrande maggioranza delle persone finiva diretta in ospedale.
Si dice che la popolazione della bergamasca resista meglio a questa seconda ondata proprio perché è stata colpita in modo grave in primavera. Ci sono evidenze mediche? È una tesi plausibile?
Direi di sì. La prima ondata aveva colpito tantissime persone, adesso sembra che siano molte di meno, anche se sono in crescita negli ultimi giorni. Probabilmente si è sviluppata una sorta di immunità, seppure non di tipo anticorpale. Si tratta di altri tipi di immunità legati ai linfociti, non legati agli anticorpi.
Qual è l’età media dei suoi pazienti colpiti dal virus?
Personalmente assisto una popolazione già anziana di suo, però devo dire che questa volta ho in cura Covid solo due persone anziane, una signora cardiopatica e diabetica di 90 anni e che comunque sta abbastanza bene, e una di 72 anni. Gli altri sono tra i 40 e i 50 anni.
Appartengono a nuclei familiari?
Sì, ovviamente in famiglia basta uno infettato per contagiare tutti gli altri membri della famiglia. Però ho anche dei single che lavorano in smart working. Uno di questi è stato un solo giorno a Milano e sono convinto che il virus lo abbia preso in quell’occasione. Oggi Milano è il grande focolaio della Lombardia.
Ha cominciato a fare i tamponi rapidi nel suo ambulatorio?
Non ancora, ma dovremmo cominciare a breve. Stiamo aspettando che la Regione firmi un accordo con i nostri sindacati, ma ci hanno già chiesto chi è disposto a eseguirli, perché la scelta è volontaria. È questione di una decina di giorni, al massimo due settimane.
Come medici di base vi sentite sostenuti dalla sanità regionale?
Ci sono dei cambiamenti strutturali impossibili da realizzare oggi, ma di cui abbiamo assolutamente bisogno, come il personale infermieristico e amministrativo che oggi non abbiamo o che dobbiamo pagarci di tasca nostra. L’Ats e la Regione stanno vivendo un momento di grande fatica organizzativa, noi siamo solo un punto della rete e non vedo un grandissimo interesse nei nostri confronti. Non basta che ci diano le mascherine, abbiamo bisogno di servizi e investimenti sulla medicina di base.