Secondo il Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc), la prima ondata di contagi da coronavirus ha superato il suo picco in tutti i paesi, eccetto Polonia e Svezia. Ma la pandemia non è finita e si temono nuovi aumenti dei casi nelle prossime settimane. Anzi, diversi virologi ed epidemiologi si aspettano una seconda ondata. Sarà pronta ad affrontarla l’Europa? “Con la richiesta pressante avanzata da Germania e Francia alla Ue – risponde Ranieri Guerra, direttore generale aggiunto dell’Oms – si raccomanda non solo una preparazione adeguata e seria, che non c’è stata finora a livello di Unione, ma soprattutto una concertazione fra i diversi Stati. Nella prima ondata noi abbiamo visto una cosa scandalosa: abbiamo visto una competizione, non una concertazione. Tutto quello che è previsto dal meccanismo di protezione civile europeo è stato attuato tardi. Adesso funziona e ne vediamo i risultati. Ma è ovvio che, quando sarà finita questa fase dell’epidemia, non vogliamo vedere svanire il livello di concertazione che è stato raggiunto”.



Il ministro Speranza ha dichiarato che “una seconda ondata o una recrudescenza è possibile”. Quando potrebbe arrivare in Italia? E sarà più o meno forte della prima?

Quando potrebbe arrivare dipende dall’accumulo di casi suscettibili e dalla circolazione del virus, che continua a esserci anche se a livelli molto più bassi di prima. Seguendo una stagionalità, anche se non ci sono prove concrete, possiamo aspettarci per settembre-ottobre che il coronavirus possa tornare con una concentrazione di casi potenziali. Poi, se ci sarà un’ondata vera o una serie di micro-focolai subito identificabili e contenibili, dipende da due fattori.



Quali?

Primo: che ci sia e continui a esserci questo sistema di monitoraggio che il ministero della Salute ha impostato e sta ottimamente gestendo con l’Istituto superiore di sanità. È l’architettura dei 21 indicatori che in qualche modo seguono determinati aspetti del sistema sanitario e allertano nel momento in cui dovesse verificarsi un ricorso non ordinario alle terapie intensive o vengano segnalati casi dai dipartimenti di prevenzione. Questo presidio è fondamentale e va rafforzato. A tale riguardo il ministro Speranza ha concesso importanti risorse finanziarie e ha attivato l’assunzione di nuovo personale. Penso sia un aspetto molto positivo.



E il secondo fattore?

Il mantenimento dei comportamenti individuali: se si riesce a rispettare il distanziamento, l’uso delle mascherine, la frequente igiene delle mani, allora la seconda ondata non ci sarà, altrimenti sarà inevitabile. Dipende da noi.

Potrebbe colpire più il Sud che il Nord dell’Italia?

Difficile rispondere. Al Nord aspettiamo i risultati dell’indagine di sieroprevalenza nazionale ed è possibile che si riscontri un discreto numero di sieropositivi, persone che hanno sviluppato un’immunità nei confronti del virus. Al Sud, viceversa, il Covid non ha avuto una grande circolazione, quindi indubbiamente e inevitabilmente siamo in presenza di un accumulo di persone suscettibili. Al Sud basta poco per far partire una fiammata epidemica.

Bisognerebbe predisporre o aggiornare un Piano di contrasto alle pandemie?

Il Piano c’è. Qualcuno ha provato a creare un caso che non esiste. Al ministero stanno lavorando molto bene sulla revisione di quello che deve essere predisposto a livello regionale. Abbiamo imparato la lezione della prima ondata. Quello che conta, però, non è tanto all’interno del paese, quanto a livello europeo.

La Merkel e Macron hanno inviato una lettera alla Commissione Ue, chiedendo di fare tutto il possibile perché non si ripeta la risposta caotica che ha caratterizzato l’emergenza Covid in Europa. Che ne pensa?

Con la richiesta pressante avanzata da Germania e Francia alla Ue si raccomanda non solo una preparazione adeguata e seria, che non c’è stata finora a livello di Unione, ma soprattutto una concertazione fra i diversi Stati. Noi abbiamo visto una cosa scandalosa: abbiamo visto una competizione, non una concertazione e neppure una coesione sufficiente a garantire la messa in comune di risorse e di dispositivi di protezione. Tutto quello che è previsto dal meccanismo di protezione civile europeo non è stato attuato o lo si è fatto troppo tardi.

E adesso?

Adesso funziona e ne vediamo i risultati. Ma è ovvio che, quando sarà finita la prima ondata epidemica, non vogliamo vedere svanire questo livello di concertazione che è stato raggiunto, anzi deve essere consolidato e messo a fattore comune. Ricordiamoci che l’Unione Europea ha competenza sui meccanismi transfrontalieri, non tanto sui singoli Stati. È fondamentale.

L’Italia è stata presa come modello nella lotta al coronavirus. Ci sono però errori che non andrebbero ripetuti qualora dovesse ripresentarsi in autunno l’epidemia?

È il tema su cui il ministro Speranza ha spinto in misura molto decisa: il rafforzamento del territorio e il collegamento tra medicina di base e strutture ospedaliere. Quello che abbiamo visto in Lombardia è stata una prima linea composta soprattutto da ospedali, che per quanto indubitabilmente ottimi sono stati travolti. Un’epidemia non si combatte nelle strutture ospedaliere, si combatte sul territorio. Su questo fronte vanno rafforzati i meccanismi di prevenzione, intercettazione e gestione dei casi. Ci sono, i dipartimenti di prevenzione sono diffusi in tutte le aziende sanitarie, sono il fulcro su cui investire e su cui impostare le strategie di individuazione precoce e di contenimento dell’epidemia. E poi c’è la rete della medicina generale, che va inserita in questa linea di difesa dal virus: la sorveglianza a livello di individui, famiglie e comunità locali potenzialmente c’è, in alcune Regioni è stata utilizzata al massimo con successo, in altre un po’ meno. Questo è il punto cruciale per un investimento politico, finanziario, tecnico, su cui il ministro si è già mosso in modo eccellente.

Sport di contatto, discoteche, musei, teatri, cinema, fiere, congressi: l’ultimo Dpcm prevede riaperture scaglionate e chiusure prorogate…

Su quanto deciso a livello nazionale non mi esprimo, perché non compete a me. Ci sono protocolli preparati dal Comitato tecnico scientifico, ci sono indicazioni precise e specifiche che se vengono rispettate rendono possibile riaprire praticamente tutto, in grande sicurezza e con estrema cautela. Poi non so quanto le persone che frequentano questi luoghi siano in grado di gestire una disciplina molto rigorosa: mi auguro che ci sia un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, anche dal punto di vista etico: contagiare gli altri non è certo cosa opportuna.

È stato giusto non riaprire le scuole?

Per una volta siamo nelle condizioni in cui l’Italia può aspettare di vedere che cosa succede altrove. Per un motivo molto semplice: il nostro calendario scolastico prevede comunque la chiusura delle scuole adesso, quindi abbiamo un paio di mesi per capire, guardando ad altri paesi dove il calendario scolastico prevede già da adesso delle riaperture, come adeguare il nostro sistema scolastico per tornare in classe serenamente e con assoluta sicurezza.

Il virus è mutato o no? È più aggressivo o meno? Il professor Remuzzi parla di tre tipi di Covid presenti al Nord, al Centro e al Sud. È così?

A livello globale abbiamo un caricamento e analisi di genotipi ormai arrivato a 75mila tracce. Guardando alle mutazioni e a quello che avviene su alcuni parametri precisi, come la contagiosità e la letalità, non mi pare che si siano verificate grandi mutazioni nel nostro paese con sotto-famiglie diverse una dall’altra o una più “cattiva” dell’altra. Una differenziazione potrebbe dipendere più dal contesto ambientale e sociale.

L’Oms è finito nel mirino per la gestione dell’emergenza fra ritardi e indicazioni ondivaghe. L’ultimo inciampo, per esempio, è quello sugli asintomatici. Critiche meritate?

No, non sono d’accordo. A mio avviso, all’Oms c’è un serio problema di comunicazione. Prendiamo il caso degli asintomatici. La collega intendeva dire che gli asintomatici veri, che sono pochi, danno un contributo alla diffusione del contagio limitato. L’interpretazione delle sue parole è stata: gli asintomatici, che sono l’80% degli infetti, non trasmettono il virus. Non è così.

Dove sta l’inghippo?

Nella classificazione degli asintomatici. Mettendo per un momento da parte la questione della trasmissione dell’epidemia, nella popolazione gli asintomatici veri sono pochi, la maggior parte delle persone sono temporaneamente asintomatiche che stanno sviluppando, in due-tre giorni, una patologia clinica, anche importante. Sono cioè i pre-sintomatici, e questi certamente diffondono il virus, fino a 48-72 ore prima dell’insorgenza di caratteristiche cliniche rilevanti. Poi  ci sono quelli che presentano sintomi molto leggeri, curabili, di cui non si rendono nemmeno conto – un banale raffreddore può essere indicativo di infezione al coronavirus -, però non vengono valutati, ma dal punto di vista dell’indagine clinica rappresentano un sintomo, perciò non possono essere classificati come totalmente asintomatici. E anche loro diffondono il virus, perché c’è una relazione non lineare tra il volume di virus emessi e la situazione clinica del soggetto. Sintetizzando al massimo: tanto più grave è il quadro clinico, tanto maggiore è il volume di virus emessi.

Quindi?

Oggi disponiamo di un’ampia letteratura scientifica sugli asintomatici veri, che variano dal 4% al 40%, e si stima, in misura credibile e attendibile, che il contributo al contagio dell’asintomatico e del paucisintomatico sia intorno al 16-18% del totale.

A che punto siamo nella corsa al vaccino? Arriverà nel 2021?

Ci sono un’ottantina di candidati vaccini e almeno 4 o 5 promettenti e a buon punto di sviluppo. Si stima che a cavallo tra 2020 e 2021 ci saranno dei candidati molto seri e che si possa avviare la produzione industriale in quantitativi sufficienti, ma non prima della fine del primo semestre. L’Oms, così come la Ue, è impegnata in primissima fila per far sì che la commercializzazione non determini esclusioni o discriminazioni nell’accesso al vaccino. Stiamo parlando di un diritto universale alla salute.

In autunno sarà utile vaccinarsi contro l’influenza?

Assolutamente sì, è necessario, indispensabile per gli over 55 vaccinarsi contro l’influenza stagionale: meglio prevenire una patologia che può essere molto grave di per sé. Ma soprattutto vacciniamo gli operatori sanitari, perché sono i più esposti, anche se oggi il loro grado di copertura è bizzarramente molto basso. Invece devono proteggere se stessi, i loro pazienti e le persone deboli, malate con cui vengono a contatto e a cui rischiano di trasmettere una patologia che può risultare letale. E vaccinarsi evita il cosiddetto rumore di fondo: si evita, cioè, tutta quella casistica che andrebbe a “distrarre” dal coronavirus l’operatore medico, impegnando le terapie intensive.

(Marco Biscella)

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