Un piccolo ambulatorio, nato come rivalutazione dei dimessi, che si offre anche per un appoggio diagnostico per i medici di base e in collaborazione con loro, sostenendoli per un controllo più serrato, in chiave anti-Covid, sul territorio. L’ambulatorio è parte di un approccio polispecialistico, composto anche da radiologi, internisti e pneumologi, per la valutazione delle possibili conseguenze a lungo termine di questa malattia. Un’iniziativa nuova, che si insedia all’ospedale Sacco di Milano, in rete con altre simili iniziative che stanno nascendo in molti altri Centri di malattie infettive in Lombardia.



“Al momento siamo in una piccola stanza – racconta Amedeo Capetti, specialista in Malattie infettive all’ospedale Sacco e tra i promotori del progetto, assieme a due colleghi – dove da questa settimana inizieremo a visitare, uno alla volta, i pazienti dimessi che presentano ancora qualche problema di salute, per dar loro un supporto immediato”. Più avanti l’ambulatorio avrà a disposizione una struttura isolata dal corpo dell’ospedale, così da mantenere puliti gli altri reparti che potranno in tal modo riprendere la loro normale attività.



Com’è nata l’idea di questo ambulatorio?

Davanti al coronavirus penso che non ci si possa rassegnare, ma come gli antichi, quando affrontavano una guerra, una volta messo in fuga il nemico bisogna inseguirlo e annientarlo, per evitare che possa tornare più agguerrito di prima. I Romani sono arrivati fino a Cartagine per distruggerla. Quindi, dobbiamo approfittare della riduzione dei numeri per riprendere il controllo epidemiologico del territorio, e per questo sta nascendo una collaborazione con i medici di base.

Dobbiamo temere una seconda ondata? Tutti dicono che arriverà…

Nessuno lo sa e non è affatto detto che ciò possa accadere. Basta pensare alla Sars: la seconda ondata è arrivata, ma non in Cina, il paese d’origine, bensì a Taiwan e poi si è trasferita in Canada. Con il Covid noi abbiamo avuto due drammatiche ondate: la prima nel triangolo Codogno-Lodi-Cremona, e la seconda nelle province di Bergamo e Brescia. Queste esplosioni hanno colpito popolazioni ignare e dunque non protette, con grossi nuclei abitativi familiari che hanno aumentato la densità di trasmissione. Alcune analisi sulla differenza fra Italia e Germania hanno sottolineato fra i vari fattori proprio questa maggiore socialità italiana e questi nuclei familiari allargati, soprattutto nelle campagne, mentre in Germania è molto più facile che ragazzi di 17 anni lascino le loro famiglie, con una conseguente maggior frammentazione, che ha così svolto il ruolo di barriera naturale.



Milano, però, mette ancora paura. Non è un focolaio da tenere sotto stretto controllo?

Milano è sì la provincia con più positivi, ma qui non è andata come a Codogno-Lodi-Cremona o a Bergamo-Brescia. Ci sono stati casi isolati e poco collegati tra loro e questo ha mantenuto finora la mortalità a livelli bassi. Il virus è arrivato in una città già molto sulla difensiva, è girato in alcuni quartieri, ma non ha coinvolto grossi nuclei familiari. E tante persone hanno avuto al massimo bassi flussi di ossigeno, poche forme gravi. Si facessero i test sierologici a tappeto, a Milano si troverebbero molti positivi in più, per una circolazione di virus a basse cariche infettanti. E oggi sarebbe davvero importante definire i nuovi casi, caratterizzarli, per conoscere cosa sta realmente succedendo. Per questo è necessario abbinare ai test – tampone e sierologia – analisi epidemiologiche che permettano di riconoscere e isolare gli esposti, in modo da limitare la propagazione. Con il diminuire dei nuovi casi questo diventa nuovamente gestibile e, a mio parere, deve assolutamente essere gestito.

In che modo?

Sarebbe interessantissimo sapere quanti dei nuovi positivi sono stati scoperti semplicemente eseguendo tamponi a gente che ha già sviluppato anticorpi, quindi asintomatici in via di guarigione. È vero che c’è una ripresa del numero dei positivi e che la Lombardia conta più della metà dei casi nazionali, ma se molti fossero riscontri casuali di questo tipo, il fenomeno sarebbe da interpretare in senso positivo. Inoltre una strategia sarebbe quella di incoraggiare e favorire la diagnostica da parte delle imprese, molte delle quali si stanno già attrezzando. Gli imprenditori, infatti, hanno chiaro che il perpetuarsi dell’epidemia costituisce una grave limitazione alla piena ripresa delle attività, che in molti contesti, a causa delle limitazioni cautelative necessarie, non sono più convenienti. Ad esempio, i ristoranti o si trasformano tutti in take away, oppure con tutte le limitazioni necessarie andranno in perdita. Perciò avranno tutto l’interesse a combattere la pandemia collaborando con gli altri attori in gioco.

Torniamo all’ambulatorio insediato al Sacco. Quali sono i suoi obiettivi?

Sono molteplici. Innanzitutto, riuscire a capire se una persona guarisce oppure se si trascina i sintomi ancora per un po’ e per quanto tempo. In questo caso, fornire loro adeguata assistenza e rimodulare o interrompere le terapie assegnate in fase di dimissione. In secondo luogo, ed è il compito di noi infettivologi, effettuare una valutazione immunologica nel tempo: scoprire se hanno sviluppato gli anticorpi neutralizzanti e capire se e per quanto tempo si mantengono a livelli protettivi. Contemporaneamente internisti, radiologi e pneumologi offrono un monitoraggio di imaging diagnostico, attraverso ecografia toracica abbinata a radiografia del torace e/o Tac del torace per documentare la completa guarigione o la persistenza di segni di malattia. Infine, lo specialista pneumologo valuta, attraverso prove respiratorie, se i pazienti hanno recuperato una capacità respiratoria normale e un adeguato scambio dei gas respiratori (ossigeno e anidride carbonica). Questa esperienza di collaborazione è già, e promette di essere, uno degli aspetti professionalmente più belli del progetto.

È una struttura a disposizione dell’ospedale?

L’ambulatorio accoglierà anche i pazienti che i medici del pronto soccorso decideranno di non ricoverare, ma per i quali indicheranno approfondimenti o osservazione specialistica in presenza, con riferimento in particolare ai pazienti ai quali è stato posto un forte sospetto clinico di Covid, ma il cui tampone è risultato negativo, evenienza non rara. E speriamo che la collaborazione con i medici di base aiuti proprio a evitare una seconda ondata del contagio.

L’ambulatorio è già attrezzato?

Ci stiamo lavorando da più di due settimane e prevediamo di iniziare in questi giorni: stiamo contattando i pazienti da visitare, che sono felici di essere ricontattati, si sentono più sicuri. Alcuni hanno effettivamente ancora problemi fisici, altri esigenze diagnostiche, alcuni invece stanno affrontando con il proprio medico di base un adeguato percorso diagnostico e desiderano solo entrare nello studio sierologico.

È un’iniziativa pilota che potrà essere riproposta anche in altre città della Lombardia?

La Società italiana delle malattie infettive e tropicali (Simit), sezione lombarda, ha presentato un documento che prevede un percorso di rivalutazione ambulatoriale, ma a partire da un mese dopo la dimissione, con due tamponi nasofaringei negativi, quindi su pazienti virologicamente guariti. Abbiamo fatto presente, per considerazione, che noi intendiamo occuparci anche delle situazioni a rischio di contagio e per questo stiamo individuando percorso e struttura dedicata Covid.

In che senso?

I pazienti che dopo le dimissioni presentano ancora o nuovamente sintomi hanno bisogno di essere assistiti adeguatamente e talora non possono aspettare di avere due tamponi negativi. Anche i pazienti inviati dai medici di base nel sospetto di Covid e quelli concordati con il Pronto Soccorso richiedono un percorso adeguato, per non rischiare di diffondere i contagi all’interno dell’ospedale.

(Marco Biscella)

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