La polemica di giornata riguarda le parole del presidente del Senato Ignazio La Russa sui ballottaggi che hanno rappresentato per l’ennesima volta il tallone d’Achille del centrodestra in alcune città e che La Russa ipotizza di riformare, ma, al di là del contingente, il nocciolo del problema è che il centrodestra alle “amministrative” raramente vince e convince.
Il problema è più grave perché mette in luce una grande verità: per dei leader che vincono – come Giorgia Meloni, che “tira” Fratelli d’Italia in termini di voti e simpatie – spesso la classe dirigente locale non è all’altezza dei vertici e generalmente anche di quella della sinistra, sia per numero che qualità delle “vocazioni”.
D’altronde essere un amministratore locale è impegno pesante, gravoso, spesso snobbato dalla “upper class”, dai professionisti, da chi è ai vertici della propria professione o posizione aziendale perché costa impegno, rogne e fatica e quindi a destra è più difficile trovare candidati eccellenti che localmente vogliano scendere in campo, mentre semmai c’è la rincorsa a cogliere un ipotetico seggio parlamentare o una posizione di prestigio debitamente remunerata.
Logico che sia più facile trovare candidati invece tra gli insegnanti, i professori, i dipendenti della sanità o della Pubblica amministrazione che – guarda caso – è spesso in buona parte tradizionalmente di sinistra, anche perché una serie di agevolazioni legislative permettono innanzitutto di mantenere il posto durante il mandato amministrativo (anzi, maturano pure i benefici e contributi accessori) per persone a reddito fisso e in qualche modo “garantite”.
Complessivamente a sinistra ci sono quindi molte più figure che si dedicano all’amministrazione locale e, in un’ipotetica piramide, più è larga la base, più è alto il vertice che si raggiunge, con più facilità si arrivano ad avere liste complete e candidati più adeguati. Certamente l’avvocato di grido che pur vota centrodestra sarebbe un ottimo candidato sindaco, ma raramente accetterà una candidatura (così come un altro libero professionista affermato) sapendo di dover rinunciare di fatto alla propria attività.
Questo vale per le elezioni amministrative, ma complessivamente i quadri intermedi dei partiti (tutti) non sono più soggetti a quel “cursus honorum” che una volta faceva crescere il giovane dalla gavetta o dalle scuole di partito in vista di un’elezione. Questo significa avere meno candidati preparati, ma anche ritrovare strutture periferiche di partito sempre più deboli.
Una volta tutti i partiti avevano una rete di sedi, federazioni e militanti, mentre oggi – sono ancora gli effetti di “Mani pulite” – tutto è evaporato, si vive on-line, e nessuno – salvo in qualche caso il Pd – può permettersi il lusso di una sede per una federazione provinciale, che peraltro rimarrebbe spesso vuota, perché non c’è più il bar o il circolo a fianco che forniva (oltre alla copia de L’Unità) occasioni di aggregazione militante.
Andando più a fondo, l’impressione è che oggi nel centrodestra solo la Lega abbia mantenuto una struttura più legata al territorio (e per lo più al Nord, comunque la si giri), mentre mancano queste radici in FdI e FI, che diventano importanti nel momento elettorale, soprattutto quando si vota non un partito politico o un leader, ma piuttosto le strutture locali.
Un esempio è stato proprio il voto di due settimane fa, accorpato per l’election day, dove è stato chiaramente visibile il crollo delle percentuali ai partiti di governo tra elezioni europee e voto locale.
Il tutto si complica ancora di più ai ballottaggi, quando non c’è l’effetto traino del voto politico e la flessione dei votanti è palmare. Da qualche anno l’astensionismo è anche a sinistra, ma ha ragione La Russa quando pone il problema di una partecipazione minima al secondo turno, con sindaci eletti che a stento rappresentano il 20% dell’elettorato, ovvero poco più della metà di votanti che si aggirano ormai sul 40-50% del corpo elettorale e spesso anche meno.
Ci sarebbe qualche soluzione tecnica cui si potrebbe ricorrere (per esempio, se al ballottaggio viene eletto un candidato con meno voti rispetto a quelli raccolti da un altro al primo turno, valga allora per l’elezione chi abbia effettivamente preso più voti); ma il vero nodo politico rimane quello di partiti sempre meno radicati sul territorio.
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