“La dimensione della quarantena protratta sine die forse è stata un po’ troppo interpretata come una quarantena dall’esistenza stessa. Credo che oggi una certa mancanza di voglia di iniziativa ci stia facendo perdere quello spirito creativo e costruttivo che ha sempre caratterizzato gli italiani, soprattutto quando era necessario venire fuori dalle fasi più complesse e tumultuose.
Uno spirito di rinascita che si ritrova molto nelle carte, nei programmi e nei piani nazionali, ma ancora poco nelle coscienze”. Sergio Astori, docente della facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano e psicoterapeuta, commenta così la situazione attuale, caratterizzata dal fatto che molti adulti in età lavorativa, nonostante le vaccinazioni, si ritrovino oggi chiusi in casa, isolati da una variante Omicron che lascia sintomi molto lievi.
Come si spiega questa segregazione così ampia?
Tutti avvertiamo che la popolazione adulta in questo tempo ha le proprie agende sovvertite da isolamenti dovuti alla positività di qualche parente o conoscente. E per una parte della popolazione possiamo anche parlare di auto-isolamento. Persone che stanno affrontando questa fase della pandemia con un vissuto regressivo che in maniera strisciante sta condizionando le attività e riducendo le opportunità di vita sociale. Un vissuto che è classificabile come uno degli effetti del Long Covid.
E’ il segno di qualche disagio particolare?
E’ il segno del venire meno di uno spirito combattivo che invece avevamo registrato nelle prime fasi della pandemia, quando si manifestava la voglia di un orizzonte più ampio, la speranza che traguardate alcune tappe si potesse ricominciare a marciare in maniera più decisa.
Oggi non è così? Che cosa si è affievolito?
Sento raccontare da molte persone che è difficile tracciare gli orizzonti, anche più prossimi, perché tutti si sentono bloccati dall’incertezza di che cosa si potrà o non si potrà fare. Credo che quella attuale corrisponda a una fase che ha generato un grande logorìo pisco-fisico ed emotivo, in attesa di qualcosa che possa sbloccare la situazione. E a seconda dei temperamenti tutto ciò può generare reazioni differenti.
Ma non rassicura che la variante Omicron sia meno pericolosa della Delta?
Penso che c’entri fino a un certo punto che sia la variante Delta o la variante Omicron in questo momento a circolare. A mio avviso, conta soprattutto il fatto che ci sentiamo un po’ tutti legati più alla stabilizzazione che al cambiamento.
Non a caso vediamo strade vuote, ristoranti vuoti, cinema vuoti. E’ colpa solo delle regole, che “costringono” a chiudersi in casa 10 giorni, o c’è un indebolimento progressivo della volontà di fare e di vivere?
Indubbiamente il linguaggio condiviso non ci aiuta.
Perché?
Questa continua identificazione del contatto stretto come esposizione ad alto rischio ci ha inimicato tutto quello che all’intorno ha a che fare con l’uomo, con l’umano. Come se avessimo confuso la paura del virus con la paura dell’essere umano.
Con quali effetti?
Abbiamo appreso questa logica dell’isolamento quasi come forma di protezione, che per molti versi ha le sue ragioni sanitarie, ma è assolutamente perniciosa dal punto di vista psicologico e sociale, perché depriva l’uomo dei motori stessi, della forza più vitale: le relazioni, in particolare quelle vis a vis, cioè l’incontro profondo, affettuoso con l’altro. La dimensione della quarantena protratta sine die forse è stata un po’ troppo interpretata come una quarantena dall’esistenza stessa.
Per venirne fuori basta allentare un po’ le restrizioni o ci sarà bisogno di rimotivare le persone?
Ribadisco, il linguaggio è importante e le regole devono essere imposte solo se sono proporzionalmente giustificate con quello che si voglia contrastare. Però sentir parlare troppo spesso di attività consentite o non consentite è un cortocircuito linguistico.
Che cosa intende dire?
Il nostro vivere civile è qualificato proprio dall’offrire la maggior possibilità di esprimersi, anche nel lavoro, ma non solo, proprio promuovendo l’attività, la possibilità di realizzazione delle persone, anche nei momenti più difficili e nelle condizioni più critiche o precarie. Credo che la sollecitazione a prendere parte in tutti i modi possibili alle attività debba essere promossa e sostenuta.
Come rimediare a questi errori di linguaggio?
E’ necessario mettere in campo una dose enorme di disponibilità, una disponibilità innanzitutto mentale, ad accogliere le novità.
Il prolungarsi dello stato di emergenza e delle regole restrittive hanno incentivato questo atteggiamento rinunciatario? Abbiamo cioè vissuto in questi due anni in uno stato di emergenza esagerata, strombazzata?
Purtroppo abbiamo raggiunto lo stato di stress cronico e questa cronicizzazione può portare a un bornout, a un esaurimento delle energie, perché la sollecitazione continua a resistere alla fine non provoca di per sé una reazione virtuosa, bensì un grandissimo sentimento depressivo diffuso. Serve uno sblocco.
Ma molti studi hanno evidenziato l’insorgere del cosiddetto “trauma della pandemia”, caratterizzato da ansia, stress, panico e destinato a lasciare dei segni? Fino a quando?
Indubbiamente gli effetti psicologici e sociali della pandemia saranno tali per cui noi non ritroveremo la normalità che conoscevamo. Ma coloro che avranno saputo tenere i piedi per terra davanti a questa che è la più grande tragedia dalla Seconda guerra mondiale a oggi sarà più facile ripartire, pur avendo ben chiara la caduta in cui si sono imbattuti.
Ci vorrà tempo prima che la voglia di vivere torni a imporsi sulla cautela, sulla diffidenza, sulla paura?
Probabilmente, una volta che riusciremo a intravvedere degli spiragli rispetto alle chiusure e alle restrizioni, di lì in poi sarà piuttosto rapido il processo di riappropriazione della mobilità e delle attività, perché se ne avverte un grandissimo bisogno. Per un ritorno a una spontaneità e a una socievolezza, così a lungo desiderate, basterà anche solo una piccola fessura, che aprirà uno squarcio alle tante energie che fanno parte della nostra natura umana. Pur sempre nel rispetto del controllo sanitario dell’epidemia, si tratterà di arrivare a una condizione tale per cui al vivere sociale sarà permesso un riavvio, un nuovo inizio.
Lei sta curando un progetto chiamato Parole buone, offrendo spunti, sollecitazioni e suggestioni positive per uscire da questo stato di ansia e di negatività. C’è una parola buona che può aiutare coloro che oggi si sono isolati o auto-isolati davanti alla pandemia?
Credo che la parola chiave sia apertura. Lo dimostrano le dinamiche sociali dei nostri tempi: apertura all’altro, ad accogliere nuove sensibilità, a essere meno dogmatici e più sinodali. Anziché giocarci nelle limitatezze, negli egoismi e nelle meschinità, che potrebbero anche essere una forma reattiva alla sofferenza patita, se sapremo superare chiusure, introversioni e ritrosie all’incontro con l’altro troveremo lo sbocco più felice a un periodo in cui ci siamo dovuti confrontare così duramente, lasciando così ricircolare la vita, la socialità, la spontaneità.
(Marco Biscella)
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