Oggi inizia il semestre bianco e i fari della politica si trasferiranno inevitabilmente sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Diversi commentatori politici, e recentemente l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, sollecitano il rinnovo del mandato di Sergio Mattarella, preoccupati del fatto che l’eventuale candidatura al Colle dell’attuale presidente del Consiglio Mario Draghi, considerata come la più autorevole, metta la parola fine all’attuale Governo, ponendo una serie di incognite sulla possibilità di completare il disegno riformatore e la stessa possibilità di portare a termine la legislatura alla scadenza ordinaria.



In ogni caso l’interruzione anticipata della legislatura a seguito dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica appare priva di buon senso. Il percorso delineato da Draghi nell’occasione del suo insediamento ha trovato solide conferme, ma sono altrettanto evidenti le difficoltà nel costruire un’adeguata coesione tra le forze politiche che sostengono il Governo, probabilmente destinate ad aumentare nel corso del semestre bianco, in relazione all’impossibilità di sciogliere il Parlamento da parte del presidente della Repubblica in carica.



Dei quattro pilastri delineati nel programma originale – rafforzare la campagna delle vaccinazioni, accelerare i tempi della ripresa economica, predisporre un credibile programma nazionale per l’utilizzo delle nuove risorse europee (Pnrr), portare a regime un credibile programma di riforme rivolto a migliorare strutturalmente la capacità di utilizzare le risorse disponibili – è soprattutto su quest’ultimo punto che sono manifeste le difficoltà tra le forze politiche della maggioranza parlamentare. L’autorevolezza del presidente del Consiglio, e la sostanziale mancanza di alternative, hanno consentito di trovare una mediazione sulla riforma della giustizia. Ma nel contempo non deve essere sottovalutato il fatto che due altre importanti ipotesi di riforma, quelle relative al fisco e alle politiche del lavoro, sono state rinviate per la manifesta impraticabilità finanziaria delle proposte che erano state all’uopo predisposte dalle commissioni parlamentari e dal ministro del Lavoro.



Quello che appare evidente è lo stacco che esiste tra il profilo dell’azione del presidente del Consiglio, rivolta a rafforzare la credibilità e le condizioni per il rispetto degli impegni che vengono assunti in ambito europeo per la gestione delle risorse rese disponibili, e le dinamiche delle tre maggiori forze politiche della maggioranza – Lega, Pd e M5S – particolarmente attente a marcare i tratti identitari delle politiche che hanno contribuito ai fallimenti dei precedenti due Governi della legislatura in corso.

L’inedita alleanza tra M5S e la Lega, favorita dai fallimenti delle coalizioni politiche che avevano animato la stagione della cosiddetta Seconda repubblica, non faceva mistero di voler mettere una pietra tombale anche sui timidi tentativi di riformare il welfare e le politiche del lavoro, riportando al centro delle politiche economiche l’aumento della spesa pensionistica e assistenziale ben rappresentata dai provvedimenti bandiera della Quota 100 e del Reddito di cittadinanza. 

All’esaurimento dell’esperimento sovrano-populista è subentrato un Governo basato sulla convergenza di interessi tra il Pd, il partito collante e gestore degli assetti istituzionali della Seconda repubblica, e un M5S in piena crisi di consenso, per evitare il prevedibile ridimensionamento delle rispettive rappresentanze parlamentari nel caso di elezioni anticipate. Il tutto con il tacito impegno di mantenere in vita i provvedimenti approvati dal precedente Governo, ivi compresi quelli di stampo marcatamente giustizialista. L’esaurimento di entrambi i tentativi segna il fallimento conclamato di due stagioni politiche, caratterizzate da una competizione tra le coalizioni impegnate nell’opera di delegittimazione sistematica di quelle avversarie, in tourbillon di tentate riforme e controriforme, che hanno impedito la modernizzazione delle istituzioni e degli assetti economici e sociali.

La perdurante stagnazione dell’economia e della produttività, l’invecchiamento della popolazione e il basso impiego della popolazione in età di lavoro sono state compensate con la crescita esponenziale della spesa pubblica corrente e l’aumento del debito pubblico. Assecondando in questo modo la deriva parassitaria dell’unico Paese tra quelli sviluppati che rimane caratterizzato da una popolazione attiva largamente inferiore al numero delle persone da sostenere.

Il prestigio del presidente del Consiglio ha consentito di recuperare la credibilità in ambito europeo internazionale, tradotta in fiducia e in risorse che hanno reso possibile e sostenibile l’ampliamento dei volumi del debito pubblico nel breve periodo per far fronte alle conseguenze dell’emergenza sanitaria, e di mettere a punto un programma di investimenti pubblici funzionale ad aumentare il tasso di crescita. Ma paradossalmente l’aumento di questi sostegni, e la mole delle garanzie finanziarie e degli aiuti mobilitati dalle istituzioni europee, ha contribuito in parallelo a rinvigorire l’illusione collettiva di poter attingere a risorse illimitate per soddisfare aspettative di ogni genere e al di fuori di ogni compatibilità. 

La credibilità futura del nostro Paese dipende essenzialmente dalla capacità di rigenerare una massa critica adeguata di risorse imprenditoriali, manageriali, lavorative in grado non solo di sostenere la ripresa delle attività economiche, ma di affrontare trasformazioni tecnologiche delle organizzazioni produttive e fabbisogni di crescita quantitativa e qualitativa delle risorse umane che non hanno precedenti. I costi di questa trasformazione, come recentemente ricordato dal Ministro Cingolani, saranno rilevantissimi e largamente superiori alla mole degli aiuti pubblici previsti. Nel nostro Paese non mancano i punti di forza, rappresentati da un’eccellente industria manifatturiera, ma si dimostra estremamente debole in molti comparti dei servizi che hanno un impatto occupazionale rilevantissimo. 

Non sono adeguate le tecnostrutture pubbliche chiamate a mobilitare risorse finanziarie tre volte superiori alla media annuale degli investimenti messi in campo nell’ultimo decennio, e nemmeno le infrastrutture e i servizi capaci di gestire le transizioni lavorative per milioni di persone, per adeguare le competenze e favorire il reinserimento lavorativo.

Il dopo Draghi è rappresentato da questo, dalla capacità di ricostruire classi dirigenti in grado di gestire in ogni ambito queste trasformazioni. La prima sfida rimane quella di fuoriuscire prima possibile dalla politica degli aiuti, finalizzata alla conservazione dell’esistente, per mobilitare le risorse verso gli investimenti, il ricambio imprenditoriale e la qualificazione delle risorse umane. La seconda è quella di costruire le condizioni interne per una crescita stabile in grado di rendere sostenibile l’incremento del debito. La terza sfida dipende dalla capacità di sviluppare alleanze con gli altri grandi Paesi europei per ricostruire in modo ragionevole le regole del Patto di stabilità in uscita dalla fase emergenziale.

Queste tre sfide rappresentano l’essenza dell’interesse nazionale, la via stretta che nessuna forza politica può eludere, quella destinata inevitabilmente a generare una riorganizzazione dell’attuale offerta politica. Per comprendere se e quali forze politiche saranno in grado di assumere un ruolo centrale e aggregante di quelle produttive e sociali interessate a contribuire in modo attivo a gestire questa complicata transizione. 

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