Il presidenzialismo che la Meloni ha rilanciato nella conferenza stampa di fine anno comincia a sollevare qualche domanda. È una riforma che “fa bene all’Italia” perché consente “stabilità e governi frutto dell’indicazione popolare”, ha detto la presidente del Consiglio, senza aggiungere molto altro.
Qualcosa in più si può leggere nel discorso del 25 ottobre con il quale la Meloni chiese e ottenne la fiducia alla Camera. Si tratta – disse allora la neo-premier – di fare una riforma “che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare”. Stop. Ma non è ancora chiaro, per esempio, se si tratti di una elezione diretta del capo del governo o del presidente della Repubblica.
“La proposta del presidenzialismo avanzata da FdI durante la campagna elettorale e sulla quale, possiamo dire, si è espresso il corpo elettorale è stata poco più di uno slogan e sembra tuttora lontana da un chiaro progetto” afferma Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo.
È un’obiezione, professore?
Giorgia Meloni non ha presentato una proposta compiuta, ma ha manifestato una disponibilità a discutere sul tema. Per questo motivo si è dichiarata pronta a partire dalla formula del semi-presidenzialismo alla francese, memore delle posizioni espresse dalla sinistra, cui non erano estranei i resti della Dc nella bicamerale del 1997, guidata da D’Alema.
Nel discorso del 25 ottobre la Meloni ha rimproverato alla nostra democrazia di essersi arenata. Occorre, testualmente, “passare da una democrazia interloquente ad una democrazia decidente”. È la diagnosi di una malattia. Condivide?
A mio avviso occorre elevare il tono del dibattito di queste settimane, che mi sembra un po’ misero. Il presidenzialismo è un sistema politico profondamente diverso dalla forma di governo parlamentare. In Assemblea costituente Piero Calamandrei, che era un convinto sostenitore del presidenzialismo con il Partito d’Azione, spiegava che il presidenzialismo condiziona il sistema dei partiti, mentre il parlamentarismo ne è condizionato. Per intenderci, Calamandrei fu il portavoce dell’idea azionista di una Repubblica presidenziale e federalista. I due temi in discussione oggi.
Ma venne percorsa un’altra strada.
Prevalse, con l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi, l’idea di una Repubblica parlamentare. Mentre il progetto regionalista, avanzato all’inizio del 900 dal Minghetti, apparve più consono alla tradizione localistica italiana, imponendosi sull’idea federale, che pure durante il Risorgimento era stata avanzata da più parti.
Qual è – se c’è – il vantaggio principale del presidenzialismo?
È la stabilità dell’esecutivo rispetto ad un sistema dei partiti che in Italia era forte ai tempi dell’Assemblea costituente, ma che da trent’anni a questa parte, cioè dalla crisi politica del 1992, è fragile e cambia quasi ogni 4-5 anni. Lo testimonia la continua formazione di nuovi soggetti politici, l’eclissi dei partiti trionfatori alle precedenti elezioni e il travaso di voti da una parte all’altra, nel vano tentativo di realizzare una condizione politica stabile e duratura.
Allora anche per lei si tratta di una riforma necessaria?
L’insuccesso continuo del sistema dei partiti politici ha reso oggi più che mai attuale un cambiamento della forma di governo in senso presidenziale. Ovviamente, il presidenzialismo è un sistema con specifici caratteri politici e storici, oltre che costituzionali, e non deve essere travisato; altrimenti si corre il rischio di cadere dalla padella nella brace.
La Meloni è scettica verso il semi-presidenzialismo alla francese, ma siccome è il modello sul quale c’è più convergenza, è – dice la premier – una buona base su cui discutere. Che ne pensa?
Fa bene il presidente del Consiglio a diffidare del semi-presidenzialismo alla francese, perché non è detto che corrisponda all’indole del popolo italiano. Anzi, non vi corrisponde affatto.
Come mai?
Ma perché la tradizione francese, da cui deriva la formula di governo della V Repubblica voluta da De Gaulle, è stata attraversata dalla rivoluzione, dal bonapartismo, dalla monarchia elettiva di Luigi Filippo e da quella di Napoleone III, fondate sulla complicità dei parlamenti. Non a caso, se l’esito elettorale dell’Assemblea nazionale non premia il presidente, la forma di governo francese funziona come una forma di governo parlamentare guidata dal primo ministro e non più dal presidente.
Sta parlando della cosiddetta coabitazione?
Esatto. Durante i periodi di coabitazione i presidenti francesi sono molto simili ai presidenti della Repubblica italiani, e nei momenti di particolare attivismo di questi ultimi, esercitano persino poteri inferiori ai loro omologhi italiani.
Le faccio però notare che lei stesso, nell’agosto scorso, ci aveva detto: “il presidenzialismo, con l’elezione diretta del presidente della Repubblica come in Francia, può essere risolutivo nei casi in cui si richiede alla Repubblica una linea unitaria, senza il gioco dei partiti politici”. Ha cambiato idea?
Mi riferivo all’elezione diretta e la Francia era un esempio elettorale comprensibile per il lettore; mentre, per esempio, non lo è quello austriaco. Personalmente, sarei per un presidenzialismo autonomo dalle vicende parlamentari. Canalizzerebbe meglio le responsabilità istituzionali e il parlamento ci guadagnerebbe anche in prestigio, essendo costretto o ad un ruolo di guida o a quello di contraltare, a seconda delle condizioni politiche.
Secondo lei il presidenzialismo (francese o no) rischia di essere solo la proiezione di una volontà politica “decidente” tipica della tradizione di FdI, ex An e prima ancora Msi?
Così posta la domanda non consente di comprendere esattamente che cosa comporti il presidenzialismo. Non si può ragionare di forma di governo presidenziale continuando a pensare ai partiti politici del sistema parlamentare frammentato e alla paura che un solo partito – per definizione minoritario – prevalga su tutti.
Allora ci spieghi lei.
Il presidenzialismo è un processo in cui operano due linee di legittimazione politica: una classica si esprime nelle camere parlamentari e raccoglie, sia pure in vario modo, che dipende dalla legge elettorale, i diversi orientamenti presenti nel corpo elettorale.
E la seconda?
L’altra si esprime nell’unificazione attorno alla figura di un candidato presidente che lo stesso corpo elettorale sceglie per guidare lo Stato. Con una linea si dibatte e si deliberano le leggi, con l’altra linea di legittimazione si governa la Repubblica in modo unitario e stabile.
Ecco: perché in Italia i governi esauriscono la loro spinta, si arenano, si bloccano e vanno in crisi?
Quello che è accaduto in Italia dalle elezioni politiche del 1992 ad oggi meriterebbe di essere approfondito da politici, storici e costituzionalisti, perché manca un chiarimento sul sistema politico dopo il crollo di quello in vigore nella cosiddetta “prima Repubblica”. Fino ad allora era rilevante chi governava in Italia, perché il mondo era diviso in due blocchi, e l’Italia era l’avamposto di quello occidentale. Di qui la doppia pregiudiziale del sistema politico: quella antifascista e quella anticomunista. Dopo la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione del Patto di Varsavia e la fine dell’Urss, l’Italia è diventata una “periferia dell’Impero” e tutte le pregiudiziali sono apparse prive di senso storico, in quanto fascismo e comunismo sono apparsi inattuali a tutta l’opinione pubblica.
Quindi?
Senza una linea che lo perimetrasse, il sistema dei partiti politici ha perso di consistenza. Fino alla caduta del Muro i partiti si costruivano su un’idea, anzi su un’ideologia. Senza questa si sono ridotti a meri contenitori di consenso nelle mani di piccole oligarchie che si concedevano ai poteri forti. Di qui anche la fragilità e l’inconsistenza dei governi e dei loro programmi.
E poi?
Dopo l’ingresso nell’euro (1999, nda), in Italia è mancata un’idea di governo e non a caso i governi che si sono succeduti non hanno concluso nulla, sono stati dei meri amministratori di condominio.
Mi sembra che lei dica: stiamo attenti, perché non basta votare direttamente il presidente della Repubblica per fare una buona riforma. È corretto?
Se ci si limitasse a prevedere l’elezione diretta del Capo dello Stato, allora potrebbe essere una semplificazione sbagliata e con molta probabilità la riforma non sarebbe risolutiva. Potrebbe persino aggravare la nostra condizione politica. Per questo motivo, accanto all’elezione diretta e alla unificazione della potestà di governo, appare necessario rimodellare la condizione del Parlamento.
In che modo?
Rafforzandolo soprattutto nel ruolo di controllo dell’attività presidenziale e di nomina delle posizioni istituzionali – anche di governo – più rilevanti. Poi occorrerebbe rivisitare l’articolazione della magistratura, e infine bisognerebbe ripensare la giustizia costituzionale.
Glielo chiedo en passant, perché ora non ci riguarda. La riforma del regionalismo?
Ci riguarda, invece. È una riforma importante, di peso, che va fatta insieme alla prima. La riforma del regionalismo è un elemento importante di disciplina della “interdipendenza umana”, sono sempre parole di Calamandrei.
Perché i partiti dovrebbero sacrificarsi e sostenere una riforma che li penalizza con un presidente della Repubblica eletto dai cittadini?
Ritengo che oltre ad una maggiore stabilità, il presidenzialismo possa comportare un assetto più duraturo del sistema dei partiti. In Italia finora lo si è tentato in due modi. Il primo è la modifica della legge elettorale: Mattarella 1994, Calderoli 2005, Italicum 2015, Rosatellum 2017. Il secondo modo è stato la riduzione del numero dei parlamentari, che si è rivelata un vulnus alla rappresentanza popolare. Complessivamente, una sequenza di fallimenti.
Giusto. Perché aggiungerne un altro?
Proprio quei fallimenti fanno sperare che il presidenzialismo possa risanare anche il sistema politico. Obbligherebbe gli attori politici a ragionare con una diversa mentalità e a ricomporsi in modo più duraturo.
Cosa dovrebbe fare il centrodestra?
Finora si sono limitati a un semplice slogan e hanno avuto un atteggiamento compiacente verso il Pd, che appare totalmente spento, o verso il terzo polo, che in tema di riforme costituzionali ha già dato il peggio di sé con Renzi. Dovrebbe avere un po’ più di determinazione per entrambe le riforme su cui si è espresso il corpo elettorale con il voto del 25 settembre, presidenzialismo e autonomia, evitando di snaturarne il senso e la portata per compiacere le opposizioni.
Non è meglio dialogare?
Determinazione significa certamente dialogare, ma su idee espresse in modo politicamente compiuto, cosa che sinora il centrodestra non ha fatto. Né per il presidenzialismo, né per il regionalismo.
(Federico Ferraù)
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