Caro direttore,
Giorgia Meloni è parsa confermare la sua posizione di “front-runner” nella volata verso il voto politico quando ha aperto un fronte dialettico con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che non solo non sarà il “contender” il 25 settembre, ma è stato appena rieletto al Quirinale fino al 2029.
La leader di FdI continua ad essere al centro di aspettative di vittoria certa (e quindi di premiership) “se non commetterà errori in campagna”. In breve: se dirà il meno possibile, il minimo indispensabile. Perché allora, quando all’apertura delle urne manca ancora un mese, la Meloni si affanna ad affermarsi come “premier inevitabile”? E perché alza la mira verso il Quirinale e non si limita a tenere sotto alzo zero i concorrenti, siano essi nel centrosinistra oppure all’interno della nominale coalizione a tre con FI e Lega?
Una lettura immediata non manca. La leader FdI teme il trasformismo endemico nella seconda repubblica, dal ribaltone fra Berlusconi 1 e Dini nel 1995 (sotto la presidenza democristiana di Oscar Luigi Scalfaro) a quello fra Conte 1 e 2 tre anni fa (sotto la regia del democristiano Mattarella al Quirinale). Nel 2013 il Pd “non vinse”, ma strappò subito la riconferma di Giorgio Napolitano e governò poi per cinque anni grazie ai senatori berlusconiani capitanati da Denis Verdini. Nel 2018 la Lega abbandonò il centrodestra per formare l’inedito esecutivo giallo-verde, sgraditissimo a Mattarella. Un anno e mezzo fa il solo FdI rimase fuori dalla maggioranza di unità nazionale, promossa dal Capo dello Stato per sostenere Mario Draghi. Oggi – secondo i sondaggi – il partito di Giorgia Meloni ha buone probabilità di emergere come prima forza politica nel nuovo Parlamento, ma – per paradosso – rischia di rimanere all’opposizione; si dice di una maggioranza-bis a guida Draghi (apertamente prospettata nel fine settimana da un commentatore come Stefano Folli, anche se con un pizzico di “wishful thinking”).
Lo schema interpretativo ha certamente una sua validità, ma non sembra spiegare fino in fondo la scelta di Meloni di alzare a un livello istituzionale una dinamica elettorale che la vede ad oggi come favorita. E la vicenda pare più intricata dopo la reazione del Quirinale: apparentemente canonica nell’uso di consolidati canali ufficiosi e nel “memento” delle prerogative costituzionali della presidenza; ma tutt’altro che scontata per tempismo e tono. Perché Mattarella è stato così solerte nel rintuzzare una battuta di una candidata premier?
La questione era già sorta all’indomani dello scioglimento delle Camere, quando Silvio Berlusconi aveva detto di considerare realistiche le dimissioni di Mattarella dopo il voto (come hanno ipotizzato autorevoli costituzionalisti in presenza di un Parlamento riformato, come suggerisce il precedente recente di Napolitano, dimissionario due anni dopo la rielezione). La presidenza della Repubblica, con tutta evidenza, non è solo “soggetto” del passaggio elettorale “a Costituzione data”. È anche “oggetto”, e non solo riguardo l’eventualità che il nuovo Parlamento elegga un nuovo presidente (e, nel caso, chi); ma anche perché il netto cambiamento portato all’architettura costituzionale dal ridimensionamento delle Camere ha l’inevitabile effetto di stimolare altri cambiamenti in gestazione da decenni.
E il passaggio al semipresidenzialismo – se non a un regime più pieno – è forse oggi la prospettiva evolutiva di maggiore attualità (la crisi geopolitica ha rinnovato ovunque in Occidente l’urgenza di democrazie “funzionanti”, capaci di decisioni rapide ed efficaci).
L’Italia è del resto governata da un “semipresidenzialismo di fatto” da più di 10 anni, da quando Napolitano superò il ruolo di pura garanzia del Quirinale e gestì attivamente la caduta del Berlusconi 3 e la nascita del governo Monti, gradito a Ue, Usa, Nato e mercati e incubatore del fallito tentativo di dar vita a un partito centrista. Mattarella ha proseguito sullo stesso solco (la bocciatura di Paolo Savona come candidato al Mef di Lega e M5s è stato il primo di una serie di atti “semipresidenziali”).
Nel gennaio scorso, il Parlamento si ritrovò a un bivio: prendere atto in termini forti del semipresidenzialismo ibrido, promuovendo Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale; oppure in termini deboli, mantenendo Mattarella. Ha prevalso una continuità carica soprattutto di inerzie antipresidenzialiste e di timori trasversali nell’arco dei partiti per la figura dell’ex presidente della Bce. Ma tutto quanto è accaduto prima del 24 febbraio, versante che appartiene a un’epoca ormai conclusa.
Draghi “non eletto” al Quirinale e poi dimissionario da premier rimane più che mai al centro del governo del Paese, in settimane cruciali. E Meloni – al di là del gioco delle dichiarazioni – sta emergendo come la leader più concretamente attenta alla cosiddetta “Agenda Draghi”: forse addirittura più degli autonominati “draghiani” Enrico Letta o Carlo Calenda (o perfino Berlusconi). Su questo sfondo l’apparente aggressività di Meloni e l’ansia manifesta del Quirinale sembrano acquisire una dimensione meno opaca.
La pretesa d’incarico da parte di una Meloni candidata vincente al voto sembra quindi porre un’altra questione, ad un tempo politica e istituzionale. Potrà Mattarella (esponente del Pd, “proprietario” del Quirinale dal 2006, benché regolarmente perdente alle elezioni) frenare Meloni con mezzi “semipresidenziali di fatto”? E i tempi non suggeriscono di mettere immediatamente sul tavolo del primo Parlamento della terza repubblica il passaggio a un ordinato “semipresidenzialismo di diritto”? E chi se non Draghi può condurre al meglio questa fase? Con Meloni premier, se FdI sarà il primo partito italiano il 26 settembre. Non con un premier tecno-Pd regolarmente perdente al più importante passaggio democratico.
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