Le recenti vicende relative all’elezione del presidente della Repubblica hanno riacceso il dibattito sulla nostra forma di governo, parlamentare a tutti gli effetti ma che presenta, a colpo d’occhio, una torsione verso un crescente ruolo del capo dello Stato in funzione di tutela del buon funzionamento delle nostre istituzioni. Tale torsione presenta elementi molto particolari, primo tra tutti il fatto che le sue tradizionali funzioni, pensate come proprie di una figura essenzialmente neutra, apartitica e super partes, sono andate via via rivelando una caratura “politica” nel senso più alto del termine, come cioè orientata alla ricerca di un “bene”, con tutte le conseguenze che questa parola comporta.
Si riscontra, in altre parole, il fatto che, con lo svolgersi della vita istituzionale del Paese, si è andata via via delineando una funzione del capo dello Stato sempre più impregnata di scelte di valore, sostanziali, e quindi, in un certo modo, connotate da una volontà del soggetto titolare della carica non più compatibile con la vecchia idea, densa di reminiscenze statutarie, di un vertice istituzionale lontano non solo dall’arena politica ma anche da ogni vicenda che potesse essere vista, per quanto lontanamente, come una presa di posizione, conseguenza di una manifestazione di volontà
Quella figura anonima, priva di volontà propria, incolore, che, sulla scorta di quanto previsto dallo Statuto Albertino (secondo cui il re non poteva far male) si presentava spoglia di ogni connotazione autenticamente umana, si è progressivamente colorata assumendo l’incarnato e la fisionomia dei diversi presidenti che si sono avvicendati; ognuno capace di dare il proprio apporto non solo alla figura istituzionale da lui interpretata, ma anche alle istituzioni delle quali egli si poneva al vertice, determinando scelte che, inevitabilmente, divenivano sempre più vicine alle diverse parti politiche. E questo, naturalmente, senza identificarsi in modo pieno con l’una o con l’altra, ma anzi tentando – con risultati differenti – di mantenere una istituzionale, rassicurante distanza.
È questa lenta torsione che fa da sfondo all’idea secondo cui si potrebbe, tramite una elezione diretta del presidente della Repubblica, porre rimedio (o persino porre fine) al fenomeno tratteggiato: si invoca l’elezione diretta, spesso senza chiara consapevolezza delle conseguenze che essa comporta, e si esorcizza in questo modo la necessità di un ripensamento a tutto campo della nostra forma di governo parlamentare, che parrebbe – ma in modo gravemente erroneo – restare tale.
Ci si muove su crinali stretti, invocando – ad esempio – quanto Tosato propose in Assemblea Costituente, e cioè che dopo le prime tre votazioni a maggioranza dei due terzi ci si sarebbe dovuti rivolgere al popolo sovrano affinché esso stesso ponesse fine all’incapacità del Parlamento di scegliere un capo dello Stato svincolato dai condizionamenti di parte; oppure si fa riferimento alla forma di governo francese, molto difficilmente reimpiantabile da noi.
Insomma: a fronte di un processo che è durato tutto il tempo della nostra Repubblica, si vorrebbe con una riforma puntuale (le riforme puntuali sono oggi di gran moda dopo il fallimento delle riforme a largo spettro), un tocco magico, riavvolgere il nastro della storia e ricreare l’innocenza perduta.
Illusioni, come ha ben detto il neopresidente della Corte costituzionale Giuliano Amato: o si punta sulla rappresentanza dell’unità nazionale, o ci si volge alla più tradizionale rappresentanza di una parte politica, quella che fa da base elettorale per l’elezione diretta; o si esercitano funzioni di garanzia in forza di un mandato intrinsecamente super partes perché scelto senza le minoranze di blocco che inficiano il raggiungimento della maggioranza assoluta, o si ricrea, nel presidente eletto direttamente, l’ombra della scelta politica intesa come scelta di una parte opposta ad un’altra. Un plauso al “Dottor Sottile” e buona fortuna a chi vuole avviarsi su quest’ardua strada.
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