Per apprezzare la sentenza della Cassazione con tutta la profondità che merita, occorre risalire agli equivoci creati dalla legge n. 242/2016, che approvata dal Parlamento con l’intento di disciplinare la coltivazione della canapa, subito era stata impropriamente interpretata come un via libera alla cessione al dettaglio di marijuana, entro e non oltre il limite dello 0,6. Come tutti abbiamo potuto constatare in pochi mesi le città si sono riempite di negozi in cui era possibile acquistare cannabis a basso dosaggio sia sotto forma di infiorescenze che sotto forma di altri prodotti, a cominciare dalle caramelle alla cannabis.



Immediatamente è apparso chiaro che i cannabis shop erano lo strumento per realizzare una legalizzazione di fatto. Con l’aggravante di aver creato la falsa convinzione, soprattutto nei giovanissimi, che la cannabis a basso dosaggio non fa male e quindi l’unico rischio viene dall’abuso e non dall’uso.

La sentenza della Cassazione fa chiarezza sulla questione, recuperando il significato originario della norma. Infatti secondo la Corte “la commercializzazione” di tali prodotti, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, “non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53 Ce del Consiglio, del 13 giugno 2002, e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati. Integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4 del Dpr 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e in genere la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa, salvo che tali prodotti siano privi di efficacia drogante”.



La legge n. 242/2016 disciplina infatti la coltivazione della canapa, ma la cessione resta vietata; tuttavia il rischio del fraintendimento c’era tutto, anche per il clima in cui la legge è passata: una sorta di scorciatoia per ovviare alla resistenza con cui molti in Parlamento si opponevano alla legge ben più ampia e permissiva che chiedeva un’esplicita liberalizzazione nell’uso e nella vendita della cannabis. Legge puntualmente ripresentata anche in questa legislatura e per ora parcheggiata in qualche commissione, senza essere stata ancora calendarizzata. Le riserve principali alla legge 242 sono di tre tipi: la prima di natura preventiva, dal momento che un acquisto così facilitato di cannabis e in forme così accattivanti come le stesse caramelle, genera l’equivoco che non faccia alcun danno, mentre il primo danno che provoca è proprio quello della addomesticazione della trasgressione, vera e propria anticamera della dipendenza. Il secondo danno nasce dall’equivoco che al di sotto della soglia di 0,6 sia scongiurato qualsiasi effetto drogante, mentre è noto che questa soglia pur essendo bassa, crea nei più giovani uno stato di euforia e di disinibizione che rivela al di là di ogni ragionevole dubbio come gli effetti ci siano e siano facilmente visibili. Certo si tratta di soglie di sensibilità diverse per cui ciò che fa male a qualcuno potrebbe essere meno nocivo per altri. Ma è buona regola della prevenzione assumere come punto di riferimento proprio la soglia di sensibilità dei più fragili e quindi dei soggetti più esposti al rischio dipendenza. In terzo luogo, ultimo ma non ultimo, il commercio che si è immediatamente creato intorno a questi cannabis shop e che ha reso subito evidente di quanti e quali siano gli interessi commerciali nati intorno ad un affare di svariate centinaia di milioni, facilmente destinati a crescere in modo esponenziale. 



Non c’è dubbio che la legge sia nata con un margine di deriva interpretativa molto molto alta, soprattutto dato il contesto culturale in cui è stata approvata e data l’assoluta mancanza di controlli effettuati in questi cannabis shop in cui è lecito dubitare che il livello stesso di concentrazione del prodotto attivo sia stato sempre rispettato. Ricordo perfettamente il dibattito in Aula e lo sforzo fatto per contrastarne l’approvazione oppure per far approvare emendamenti che ne definissero più e meglio i limiti. Ma con il voto Pd-M5s, allora l’uno all’opposizione dell’altro, ma strettamente uniti in questa operazione, la legge passò facilmente. All’inizio di questa legislatura con alcuni colleghi dell’area di Forza Italia, concretamente con i colleghi Mallegni e Gasparri, abbiamo presentato una mozione che andava in tal senso e che è stata regolarmente respinta dal Governo. Per non parlare delle tante interrogazioni presentate proprio per denunciare il proliferare dei cannabis shop e chiedere maggiori garanzia sulla vigilanza a cui avrebbero dovuto essere sottoposti. Anche in questo caso i ministri corrispondenti, soprattutto Giustizia e Salute, non hanno mai, ma proprio mai risposto.

A questo punto non ci resta che rallegrarci con la sentenza della Cassazione, che in realtà intercetta la preoccupazione di moltissimi genitori e offre una risposta a cui si inchinano il senso comune e l’antica saggezza della prudenza. Il principio di precauzione, principio chiave in bioetica, avrebbe dovuto rendere assai più prudente il legislatore due anni fa, ma avrebbe dovuto esigere un controllo sistematico su questi negozi ad alto rischio e soprattutto avrebbe dovuto lanciare una campagna educativa molto più coraggiosa ed incisiva. Ora sarà necessario lavorare sul piano della prevenzione per superare quella percezione di cannabis “lecita” che si è diffusa soprattutto tra gli adolescenti, e per rendere il divieto concreto.

Ovviamente bisognerà leggere con attenzione le motivazioni della sentenza della Cassazione che afferma che la legge non consente la vendita o la cessione a qualunque titolo di prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis, la cosiddetta cannabis light. È una decisione importantissima, che di fatto cancella un equivoco molto pesante che con la complicità di molti si è diffuso. Ma quel che oggi appare chiaro è che per la Cassazione la legge non consente la vendita o la cessione a qualunque titolo dei prodotti “derivati dalla coltivazione della cannabis”, come l’olio, le foglie, le inflorescenze e la resina.