Una sentenza lunga e complicatissima, la n. 192/2024 sull’autonomia differenziata (Legge Calderoli), con la quale ieri la Corte costituzionale ha motivato la decisione comunicata lo scorso 14 novembre. Le regioni ricorrenti – Puglia, Toscana, Sardegna e Campania – puntavano ad ottenere l’incostituzionalità della legge, che la Consulta ha invece ritenuto illegittima solo per alcuni profili. Nella loro pronuncia di 109 pagine i giudici hanno spiegato al Parlamento come provvedere. Un intervento, quello della Corte Costituzionale, che non convince del tutto Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla LUISS di Roma.
Professore, si può azzardare una prima valutazione della sentenza, senza alcuna pretesa di completezza?
Si tratta di una sentenza estremamente articolata, che merita un’attenta lettura. In prima battuta, appare particolarmente interessante qualche constatazione sulla dinamica che caratterizza la pronuncia. La Corte innanzitutto consolida l’innesto della cosiddetta legge quadro sull’autonomia differenziata – la cui legittimità in quanto tale era stata contestata dalle Regioni – nel tessuto dell’art. 116 della Costituzione.
E in questo dà torto ai ricorrenti. E poi?
Premette alla motivazione sulle singole questioni una brillante interpretazione di tale disposizione costituzionale offrendone una lettura sistematica, con effetti che, anche per la povertà e l’imprecisione del dettato costituzionale, sembrano avere consistenza integrativa di questo. Infine, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una serie di norme, accompagna un vero e proprio “decalogo” che il legislatore dovrà seguire perché la legge sia conforme a Costituzione. Conforme, ripeto, e non solo “non contraria” ad essa.
Se non abbiamo capito male, in questa sentenza la Corte Costituzionale dice al Parlamento che, se il legislatore vuole una legge costituzionale, deve attenersi a questo decalogo, a queste “direttive”, possiamo chiamarle così?
È qualcosa di molto simile ai principi e ai criteri direttivi che il Parlamento deve indicare al Governo in sede di delega legislativa. Ed è sotto tale profilo che assume particolare rilievo l’interpretazione – ma si potrebbe dire anche re-interpretazione – dell’art. 116 Cost. La Corte non si limita a segnare i limiti all’attività legislativa, ma ne individua ex ante le condizioni di validità.
Dunque è la Corte che stabilisce i principi direttivi per il legislatore. Eppure non siete voi costituzionalisti a insegnarci che nel sindacato di costituzionalità, se esso avviene in forma giurisdizionale, la Corte deve limitarsi a dire se la legge impugnata è o no contraria alla Costituzione?
La scelta di un modello di sindacato di costituzionalità di carattere marcatamente giurisdizionale – anche per i requisiti necessari per esserne giudici – comporta in effetti che alla Corte costituzionale competa soltanto la valutazione circa la sussistenza di violazioni delle norme costituzionali. E ciò anche per evitare che si chieda ad essa di assumere un ruolo di co-determinazione o di supplenza politica.
Mi par di capire che il Parlamento, in questo modo, diventa un comitato esecutivo di tale delega: viene di fatto delegato ad applicare i criteri direttivi della Corte. Ma tutto questo è, ci passi il termine, “costituzionale”?
Comunque si voglia designare questa dinamica, è certo che il Parlamento si trova di fronte un’area di legislazione già impegnata “costruttivamente”, se così si può dire, dalla Corte costituzionale: ogni diversa determinazione sconterebbe la violazione di quella sorta di “norma interposta” costituita dalla sentenza della Corte. Si tratta di un fenomeno da studiare con molta attenzione, nel quadro dei principi di struttura del nostro ordinamento costituzionale. Senza cedere alla fascinazione che fa ritenere immediatamente normativa ogni evoluzione istituzionale.
Supponiamo che il Parlamento faccia una legge secondo i dettami della Corte. Se tra dieci anni tale legge venisse impugnata, una Corte diversamente composta non si troverebbe in una posizione imbarazzante?
Direi di sì. Sarebbe se non altro molto più difficile per la Corte futura mutare avviso sulla lettura, previamente resa in linea generale, di una disposizione costituzionale.
Lei ha scritto su queste pagine che con la sua decisione la Corte si è auto-attribuita una funzione del presidente della Repubblica. Alla luce di queste 109 pagine, conferma questa valutazione?
Assolutamente sì. Mi pare evidente che diverse “direttive” contenute nella sentenza avrebbero trovato opportuna collocazione in un messaggio motivato del Presidente della Repubblica, in sede di controllo sulla promulgazione. Si sarebbe così consentito al Parlamento di svolgere ogni valutazione, permettendo un dispiegarsi più ricco della dialettica politica. E si sarebbe evitato alla Corte costituzionale di spingersi così lontano…
(Federico Ferraù)
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