Nelle scorse settimane si era da più parti segnalato l’ingorgo politico-istituzionale che si profilava all’orizzonte di questo nuovo anno. I nodi scaricati sul mese di gennaio stanno cominciando a sciogliersi, coinvolgendo le istituzioni di garanzia in polemiche facilmente prevedibili.
Due giorni fa è stato il turno del referendum abrogativo chiesto da alcuni Consigli regionali (e ispirato dalla Lega) per trasformare il meccanismo elettorale di Camera e Senato in un sistema interamente maggioritario a collegi uninominali. La Corte costituzionale ha fatto sapere, attraverso un proprio comunicato, in attesa del deposito della pronuncia, che a conclusione della discussione la richiesta è stata dichiarata inammissibile “per l’assorbente ragione dell’eccessiva manipolatività del quesito referendario nella parte che riguarda la delega al Governo, ovvero proprio nella parte che, secondo le intenzioni dei promotori, avrebbe consentito l’autoapplicatività della normativa di risulta”.
Senza soffermarsi sugli aspetti più propriamente politici, cerchiamo di capire quel passaggio del comunicato, che sembra voler in qualche modo addossare ai promotori del referendum la causa principale dell’insuccesso del loro tentativo. Dobbiamo, però, fare un passo indietro.
Il quesito, estremamente lungo e complesso, prevedeva di pronunciarsi, oltre che sui testi unici delle leggi per l’elezione di Camera e Senato, anche sull’abrogazione di alcuni segmenti linguistici dell’art. 3 della legge n. 51/2019, approvata nella scorsa primavera per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari, il quale stabilisce che “qualora, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sia promulgata una legge costituzionale che modifica il numero dei componenti delle Camere … il Governo è delegato ad adottare un decreto legislativo per la determinazione dei collegi”. Decreto da adottarsi entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della riforma costituzionale.
I promotori del referendum, per consentire la autoapplicatività della cosiddetta normativa di risulta – richiesta dalla giurisprudenza costituzionale come condizione di ammissibilità dei referendum in materia elettorale – intendevano “piegare” quella delega approvata per l’ipotesi di riforma costituzionale del numero dei parlamentari alle esigenze risultanti dall’eventuale abrogazione referendaria della normativa elettorale, con un evidente stravolgimento dell’originario significato normativo. Sarebbe stata modificata la rubrica dell’articolo (togliendo il richiamo ai collegi plurinominali), sarebbe stato eliminato il richiamo al collegamento con la riforma costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari, si sarebbe modificato il giorno da cui far partire il tempo della delega (la cui determinazione è un requisito previsto dalla Costituzione).
La presenza di tali forzature sembra, dunque, stando almeno al comunicato, il fattore che ha consentito alla Corte, con metafora calcistica, di rifugiarsi in corner.
Ma non si può fare a meno di notare che, per gli organi di garanzia, il pericolo viene già dal giocare simili partite, e, a maggior ragione, dal farlo senza una precisa cornice di regole costituzionali. Ecco perché viene da chiedersi se non sia forse venuto il momento di innalzare a livello costituzionale almeno gli elementi più sensibili del sistema elettorale, come del resto suggerito da importanti organismi sovranazionali, per accrescere la prevedibilità di eventuali pronunce della giustizia costituzionale e per dare a tutti gli attori (cittadini compresi) una maggiore stabilità al riguardo, riducendo lo spazio per le polemiche politiche.