Premesso che non è ancora disponibile la sentenza della Corte Costituzionale in materia di due cognomi, e quindi dobbiamo accontentarci, almeno per ora, del comunicato stampa che è stato emesso oggi, vale la pena sottolineare come il senso della sentenza sembra riferirsi più ai diritti del figlio che non a quelli della madre, come invece sembra si possa intendere da vari comunicati.
La sentenza, così come è riportata, afferma che l’attribuzione automatica del solo cognome paterno è discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio. La nuova regola prevede quindi che il figlio assuma il cognome di entrambi i genitori, secondo l’ordine da loro concordato; a meno che non decidano, di comune accordo, di attribuire al figlio soltanto il cognome di uno dei due.
La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato non costituzionale la norma vigente finora, per cui al figlio veniva imposto solo il cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori. Risultano pertanto abolite alcune norme che alla luce dell’attuale interpretazione sono in contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo anche in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo la Corte, in base al principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta del suo cognome, che costituisce un elemento fondamentale della sua identità personale. Il provvedimento riguarda i figli nati nel matrimonio, quelli nati fuori dal matrimonio e i figli adottivi. Ora toccherà al legislatore definire tutti gli aspetti pratici collegati a questa affermazione di principio.
In realtà il Parlamento, e concretamente la Camera dei deputati, aveva già approvato una norma in tal senso verso la fine della precedente legislatura, ma il Senato non era riuscito a calendarizzarla, e quindi non si era potuto discuterla e approvarla, neppure dopo eventuali modifiche. E in questa legislatura sono stati presentati sei disegni di legge da parte di tutti i partiti di maggioranza, tanto da aver dato vita ad un gruppo di studio per cercare una mediazione tra le diverse proposte. Ma nonostante i ripetuti incontri tra i proponenti, per lo più tutte donne!, la sintesi non è stata ancora trovata, a conferma del fatto che dirimere le varie questioni “pratiche” a cui la Consulta rimanda per confezionare la legge non è poi del tutto semplice e scontato.
I sei ddl, come già detto, hanno come tutti come prima firma una donna. Il primo ad essere presentato è stato quello di Italia viva, l’AS 170, a prima firma Garavini; il secondo, AS 286, è della senatrice Unterberger delle Autonomie; il terzo, AS 1025 è a prima firma Maiorino, del Movimento 5 Stelle; un quarto, AS 2102 è a mia prima firma: Binetti, Udc; il quinto, AS 2278, è a prima firma della senatrice Malpezzi, Pd; il sesto ed ultimo, AS 2293, è della Senatrice De Petris, Leu. La sigla AS sta per Atto Senato, e indica il rispettivo incardinamento di ognuno di questi ddl in tempi diversi e conferma l’interesse del Senato ad affrontare questo tema; ma la discussione generale è iniziata solo il 15 febbraio di quest’anno e oggettivamente non ha fatto molti passi avanti. Anche se occorre sempre ricordare che il Parlamento in questa legislatura, tra pandemia e guerra in Ucraina, ha sempre dovuto rimandare il dibattito sui ddl di iniziativa parlamentare e adeguarsi all’incalzare dei decreti e dei Dpcm.
Certamente è singolare che, con una maggioranza così ampia in cui ogni partito o gruppo, tranne la Lega, ha proposto disegni di legge in materia di due cognomi, non si sia riusciti a portare a termine il mandato che già in precedenza la Consulta ci aveva affidato. In una vecchia sentenza, la 13/1994, la Corte Costituzionale, parlando del cognome, aveva affermato che “assume le caratteristiche del segno distintivo ed identificativo della persona nella sua vita di relazione… accanto alla tradizionale funzione del cognome quale segno identificativo della discendenza familiare”.
Nel 2016 la Corte Costituzionale si era già espressa sul tema del doppio cognome, lasciandolo come possibile scelta per i genitori del bambino. In base a quella sentenza le coppie potevano aggiungere il cognome materno a quello paterno. Ma nulla era scontato. In altri termini, quasi 30 anni fa la Corte Costituzionale aveva proposto al Parlamento un’interpretazione del cognome e delle sue funzioni che andava oltre quella della semplice discendenza familiare e includeva un maggiore margine relazionale in cui le due storie familiari, quella del padre e quella della madre, componevano una nuova genealogia di cui erano parte integrante anche i nonni, gli zii, e il contesto familiare con la sua storia fatta di tradizioni materne e paterne che si intrecciavano variamente, fino a comporre una nuova famiglia, o per lo meno un nuovo ramo familiare con le sue prerogative specifiche. Nella nuova famiglia che si forma, e da cui e in cui nascerà il figlio, il ramo paterno e quello materno si intrecciano fino a formare un nuovo soggetto familiare e sociale, in cui le diverse identità attingono energie affettive ed effettive e valori personali, sociali, culturali. Questo è un po’ il senso dei due cognomi, materno e paterno, trasmessi al figlio, in una condizione di parità e senza distinzioni, così come prevedono gli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione.
Non è quindi la vittoria di un certo femminismo quello che la sentenza della Corte Costituzionale sancisce, ma un più ampio riconoscimento dei diritti del figlio, a cominciare dal diritto ad avere una famiglia in cui i due genitori integrano le loro identità e le loro personalità in un nuovo progetto condiviso. A ben guardare la sentenza, in un’epoca di crisi della famiglia, in un contesto di legami spesso troppo liquidi per affrontare ostacoli e difficoltà, ripropone in modo esplicito al padre e alla madre il senso di una responsabilità congiunta che non può essere delegittimata. Se in passato i giudici avevano sentenziato che il sistema del cognome paterno dato automaticamente ai figli fosse un “retaggio di concezione patriarcale”, oggi quel retaggio non è certo diventato un retaggio di tipo matriarcale, ma un più forte vincolo di natura coniugale.
Non è in gioco la parità di genere, ma piuttosto la diversità di genere e la necessità di trovare il punto forte del rispettivo riconoscimento delle identità e dei ruoli. Da anni un certo mondo femminile vedeva nell’automatismo del cognome paterno al figlio una vera e propria forma di subordinazione dell’identità materna a quella paterna, per cui si generava una discriminazione evidente. In realtà il solo cognome paterno dato al figlio poteva indurre a sottovalutare la storia e la genealogia materna nella costruzione della nuova identità familiare e personale. Questa sentenza ristabilisce un nuovo piano di equilibrio nella dinamica familiare e la condizione di parità rimanda ad una più seria e matura riflessione sui rispettivi ruoli, ma anche sulle rispettive responsabilità nei confronti dei figli.
Si sottolinea anche la diversità e l’uguaglianza che c’è tra fratelli che hanno in comune lo stesso padre, ma non la stessa madre e viceversa. Fratelli che hanno la stessa madre ma padri diversi. Ognuno avrà il cognome che esprime, salvo diverso accordo tra i genitori, le rispettive radici materne e paterne. In linea con la Costituzione, si sottolinea anche nel diritto di famiglia non solo e non tanto che ci sia prevalenza del maschile sul femminile, ma piuttosto che entrambi sono chiamati ad una stessa mission nell’educare i figli e prendersene carico.
Qualcuno teme che con il doppio cognome ci possa essere il rischio che con il tempo si crei una moltiplicazione dei cognomi. Ovviamente non sarà così anche se questo è un aspetto che dovrà definire il legislatore. Una possibilità è che quando si arriva alla generazione successiva si debba far decadere un cognome, cercando di evitare quanto accadeva in Spagna fino a qualche anno fa, quanto in un automatismo quasi scontato la donna perdeva il cognome della madre per acquisire quello del marito e quindi ai figli veniva trasmesso il cognome del padre e quello del nonno… con la sensazione che il rischio di una declinazione tutta al maschile della genitorialità diventasse prassi. In Italia non sarà così, come per altro non è più così in Spagna.
Al legislatore tocca l’ardua sentenza di trovare una formula semplice e funzionale, rispettosa della libertà di tutti, ma compatibile anche con quei criteri di riconoscibilità nel tempo, indispensabili per riconoscere la coerenza di una storia personale e familiare, o almeno poterla ricostruire secondo il filo conduttore di un albero genealogico in cerca di eredità.
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