La Corte Costituzionale ha censurato una delle norme fondamentali dell’anagrafe italiana, quella secondo cui è automatica l’attribuzione ai figli del cognome del padre. L’automatismo sarebbe lesivo dell’identità dei figli nella loro vita di relazione, essendo il cognome non solo un segno distintivo della discendenza e dell’appartenenza familiare, ma anche di tale identità.
Secondo il comunicato stampa della Corte, che peraltro lascia aperte molte questioni, oggi la regola dovrebbe essere quella del doppio cognome, nell’ordine deciso dalla coppia e, in caso di disaccordo, dal giudice. È anche possibile, con l’accordo di entrambi i genitori, attribuire uno solo dei cognomi della coppia.
Può essere di interesse ricordare che il caso è stato sollevato da una coppia che, in periodo di convivenza, aveva avuto due figli, a cui – in mancanza di matrimonio – era stato attribuito il cognome della madre. Dopo il matrimonio e dopo la nascita del terzo figlio, la coppia aveva richiesto che quest’ultimo potesse avere il cognome della madre, per essere eguale ai fratelli.
Di fronte ad un caso come questo, la decisione della Corte si è comprensibilmente orientata nel senso indicato: escludere l’obbligatorietà dell’attribuzione del cognome del padre, lasciando alla coppia la decisione in merito e al legislatore il compiuto di regolare le questioni che discendono da quanto deciso.
Come anche molti articoli di stampa hanno messo in rilievo, occorre ora aspettare di leggere la sentenza, sia per comprenderne l’efficacia (se diretta o di mero principio, subordinata a scelte legislative di riscrittura delle norme in materia; se pro futuro o retroattiva) sia per comprenderne le motivazioni che peraltro in qualche modo si intravedono nel comunicato, pur con tutte le incertezze che restano.
Dalle espressioni con cui la Corte ha reso nota la sentenza si evince che, al centro della questione, viene messo – oltre all’inevitabile lesione del principio di eguaglianza – l’interesse del figlio a non essere identificato con un cognome imposto ex lege, in modo automatico, senza che vi sia spazio per tenere in considerazione i diversi casi della vita che potrebbero suggerire – come nel caso citato – che vi sia un interesse a scelte più articolate, più consone allo stato delle persone coinvolte e più coerente con la volontà dei entrambi i genitori. Essi ben potrebbero desiderare di attribuire al figlio entrambi i loro cognomi di origine o uno solo dei due, per motivi che il legislatore non è chiamato ad alterare bensì a rispettare, costruendo norme sufficientemente elastiche da lasciar spazio a scelte differenziate in materia.
Ovviamente, non tutte le scelte potranno avere spazio: i cognomi hanno una loro funzione di identificazione dei soggetti che li portano e questo non dovrà essere sostanzialmente alterato, così come non dovrebbe essere permessa un’eccessiva diversificazione nell’ambito di una stessa realtà familiare. Non va dimenticato, infatti, che il caso è stato risolto nel senso di consentire ai tre fratelli di avere lo stesso cognome e non cognomi differenziati (che era quello che si sarebbe prodotto nel caso in cui fosse stato considerato costituzionalmente legittimo l’attribuzione in automatico del cognome del padre).
Segno dei tempi? Certamente sì. I nostri sono tempi in cui sono presenti formazioni familiari di varia conformazione e storie personali diversamente articolate secondo percorsi determinati da scelte libere circa il senso delle relazioni affettive, non tutte destinate a confluire nella famiglia tradizionale, tutelata nella sua unità e stabilità in modo unilaterale e precettivo, prescindendo dai contesti di riferimento, culturali, religiosi e più semplicemente in continuo mutamento.
Ovviamente, qui ci si discosta da un tradizione e, ad un tempo, da una idea di “traditio”, di cose e storie consegnate e dotate di continuità, nel bene e nel male. Si opta, invece, per l’estensione del principio di autodeterminazione finalizzato a dare espressione alla volontà della coppia che, nel caso presente, si fa portavoce dell’interesse del figlio ad essere identificato in modo libero, non predeterminato da principi di natura pubblicistica. Così, l’interesse dell’uno e la manifestazione di volontà degli altri vanno a confluire, identificandosi e creando in capo al legislatore un obbligo di conformazione.
Questa dialettica tra caso concreto e decisione a portata generale è, peraltro, insita nella configurazione dei poteri della Corte, a cui viene sottoposto un quesito sulla costituzionalità di una norma solo se questa è funzionale alla soluzione del caso concreto in cui la questione si è posta. Il caso, dunque, in tutte le sue sfaccettature, è funzionale alla decisione la quale, una volta adottata, ha effetti non solo sul caso stesso ma su tutto l’ordinamento. Sono sentenze valide erga omnes, come si suol dire, che abbracciano tutti i possibili altri casi e a cui il potere legislativo deve conformarsi, secondo principi di libertà e di eguaglianza, ma anche nel suo compito di custodire un ordine che eviti, ove possibile, che si creino situazioni confuse o non chiare.
Alle tante domande che il caso sta destando una risposta è d’obbligo. E una cosa è certa: secondo il comunicato, il compito, non sempre facile, è del Parlamento, che dovrà finalmente decidersi a trasformare in legge i molti progetti presentati.
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