Stessa sorte nonostante le profonde divergenze negli intenti del mandato. È questo il paradosso che emerge dalla pubblicazione delle motivazioni della sentenza per cui lo scorso ottobre il Tribunale di Milano ha condannato in primo grado Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, all’epoca dei fatti rispettivamente Presidente e Amministratore Delegato di Monte dei Paschi di Siena. Condanna che nell’affaire dell’istituto senese si aggiunge a quella ricevuta nel novembre 2019 da Mussari e Vigni a oltre sette anni di reclusione (7 anni e 3 mesi il primo, 7 anni e 6 mesi il secondo) sempre dal Tribunale del capoluogo lombardo.



Non è l’unica sorpresa della vicenda che parte da Rocca Salimbeni, ma è senz’altro la più paradossale: è stato messo sullo stesso piano chi ha creato il problema e chi ha provato a risolverlo. Taglio dei costi, rinnovamento manageriale, raccolta di capitale dal mercato e riduzione del profilo di rischio: Profumo e Viola hanno salvato Mps – che secondo un perito del tribunale civile «nel 2012 era tecnicamente fallita» – e denunciato le irregolarità della vecchia gestione. Come possono ritrovarsi sul banco degli imputati?



Per capire meglio tutta la questione è necessario rifarsi alla genesi dei due derivati: Alexandria e Santorini, prodotti finanziari nati a seguito della grande bolla destinata a esplodere con la crisi dei mutui subprime del 2008, in pancia ai portafogli di svariati istituti. È sulle diverse modalità di contabilizzazione di questi che verte una parte importante delle vicissitudini giudiziarie. Il criterio contabile “a saldi aperti” adottato per le operazioni Alexandria e Santorini fu concordato con le Autorità di vigilanza Banca d’Italia, Ivass e Consob. Per quest’ultima è sempre stata chiara la distinzione tra l’operato del vecchio e nuovo management di Mps. L’Autorità di vigilanza infatti non ha mai avviato alcun procedimento sanzionatorio nei confronti di Profumo e Viola.



Un turning point molto importante per tutta la vicenda è la scoperta, il 10 ottobre 2012, del mandate agreement, il manuale di istruzioni dei due derivati, attraverso il quale Vigni e Mussari hanno nascosto perdite per centinaia di milioni di euro. Consente, infatti, di dare una visione – ed una spiegazione – organica a tutta una serie di operazioni (abnorme portafoglio titoli di Stato, repo, swap) all’apparenza slegate tra loro.

Il processo si è concluso il 15 ottobre 2020 – ben 8 anni dopo la mattina in cui Viola scoprì il mandate agreement – con la condanna in primo grado del Tribunale di Milano per Profumo e Viola: una condanna arrivata dopo che per ben tre volte i pubblici ministeri Stefano Civardi, Mauro Clerici e Giordano Baggio avevano chiesto l’archiviazione per Viola e Profumo e, successivamente, costretti al dibattimento, ne avevano proposto l’assoluzione con formula piena perché il fatto non sussiste. I magistrati hanno sempre sostenuto che Profumo e Viola hanno agito senza intenzione di falsificare i conti, attenendosi alle indicazioni di Consob e Bankitalia. Una posizione rovesciata dalla inaspettata sentenza dei giudici di primo grado, per cui i due banchieri sono stati condannati per falso in bilancio in relazione, come si diceva sopra, ai criteri di contabilizzazione delle operazioni Alexandria e Santorini.

La palla passa ora ai giudici della Corte di Appello a cui Profumo e Viola ricorreranno per chiedere la revisione radicale della sentenza di primo grado.