Può un giudice mettere pace negli animi umani? Difficile dare una risposta giusta. Sicuramente una sentenza può accontentare quel desiderio che si sposta tra sete di giustizia e voglia di vendetta di chi si sente vittima. Ma le vere vittime in questo caso sono stati i 29 morti della tragedia di Rigopiano.
E la sentenza che ha decretato 5 condanne e 25 assoluzioni in primo grado nel processo per la strage causata da una valanga che il 18 gennaio 2017 travolse un albergo a Rigopiano, nel pescarese, non ha messo pace nell’animo dei familiari delle vittime e in quello degli 11 superstiti, rimasti per ore tra le macerie della struttura sommersa dalla slavina.
Dopo la lettura della sentenza da parte del gup del tribunale di Pescara, Gianluca Sarandrea, in tribunale è scoppiato il putiferio. Urla, calci alle sedie e il tentativo di raggiungere fisicamente il giudice da parte di alcuni parenti delle vittime. La pace nell’animo non c’era. Il vuoto lasciato da genitori, figli, parenti morti sotto la valanga diventava ancor più una ferita bruciante. Una sentenza più pesante non avrebbe tolto il vuoto dell’assenza di un figlio o di un genitore, quella sete di giustizia non avrebbe reso l’affetto di chi non c’è più. Ma la rabbia è cresciuta in maniera esponenziale, al punto che le dichiarazioni di chi era in aula hanno superato in molti casi la ragionevolezza dell’analisi della sentenza.
Dopo sei anni c’era chi voleva tante persone dentro un carcere, colpevoli di non aver dato ascolto alle telefonate di allarme, di non aver saputo garantire la percorribilità delle strade, di non aver fatto evacuare l’albergo non appena le previsioni meteo avevano annunciato l’arrivo di una forte perturbazione. Poi ci si è messo anche il terremoto, quella scossa della mattina che nessuno, però, avrebbe potuto prevedere. Quella scossa che ha provocato, probabilmente, la slavina, che ha tolto l’energia elettrica in quasi tutto l’Abruzzo, che ha isolato decine di paesi montani per giorni.
Adesso c’è la sentenza di primo grado, impugnabile in altro grado di giudizio. Tutti attendono i novanta giorni per leggere le motivazioni, per capire i motivi per cui il giudice ha deciso di assolvere venticinque imputati, concentrando le responsabilità solo su cinque. Pochi si sono chiusi nel silenzio, nel loro dolore. Molti hanno denunciato una sentenza che ha mancato di rispetto alle vittime e ha fatto rivivere il dramma di quelle ore di sei anni fa a tutti i presenti. Un dramma che bisogna rispettare, un dolore a cui ci può solo unire in ricordo e nella preghiera. Le sentenze dei tribunali, quelli terreni, si possono solo rispettare, si possono appellare. Le storie personali, quelle dei superstiti e dei familiari delle vittime, sono tornate, cariche di dolore, nelle case di ciascuno. Un dramma che ha insegnato alle istituzioni, tutte, un percorso da seguire, un protocollo per evitare che simili tragedie non si ripetano in futuro.
Adesso si eviteranno situazioni del genere, gli interventi per evitare l’isolamento di paesi, alberghi e persone verranno programmati. Purtroppo, spesso ormai, le situazioni migliorano solo dopo le tragedie. Non sarà utile per la pace degli animi di chi oggi soffre, ma tutti potranno dire che quelle morti, tragiche, serviranno per salvare altre vite. Le vittime rimarranno nel cuore di chi gli ha voluto e gli vuole bene, nella memoria di chi ogni anno parteciperà alla messa e accenderà una candela sul luogo della tragedia il giorno della ricorrenza. Sentenza giusta, o sbagliata, o equa? La risposta sta nella pace dell’animo.
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