Ci sono parole che devono essere dette perché hanno il potere di abbracciare il dolore. La verità non restituisce indietro nulla, ma permette di far pace con il cuore. Era necessario che qualcuno dicesse che Stefano Cucchi è morto assassinato, in una squallida sera d’ottobre, solo e abbandonato. Era necessario che non lo dicesse la stampa o la tv, ma che a dichiararlo fosse lo Stato, quella stessa comunità che lo aveva disconosciuto e ucciso perché drogato.
Anche se in fondo non può esistere ragione per un simile reato. Che poi la tragedia, come spesso accade, è divisa in tre atti, uno in caserma dove Stefano fu picchiato, uno in ospedale dove di fatto non fu né curato né alimentato e uno in tribunale, dove vennero scritti i fatti. Tra falsi e bugie si pensò che un uomo che faceva fatica ad amarsi potesse meritare addirittura un po’ d’odio e fosse facile da dimenticarsi. E la verità faticò non poco a farsi strada, dal momento che da taluni venne ritenuta pretestuosa, per offendere dei servitori dello Stato e dei medici sovraccarichi di lavoro a bassa paga, e da tal altri venne usata per riconfermare lo stereotipo del carabiniere servo del potere borghese, al punto che la sorella di Stefano nel 2013 si candidò fra le fila di un partito politico di ispirazione proletaria con molte pretese.
Ma adesso tutto questo poco importa perché la sentenza finale è stata emessa, facendo emergere una colpevolezza complessa: aver gettato luce su un tale orrore risolleva l’onore, ma non cancella le domande dell’amore. Quelle domande che chiunque ha amato Stefano gli farà nell’intimità, chiedendogli conto di tutta quella solitudine e di quel male fatto con banalità; quelle domande che vorremmo fare a quei carabinieri, inquietanti nel loro agire e nei loro torbidi pensieri; quelle domande che saranno prima o poi fatte ancora ai dottori, riguardo la loro coscienza e il loro mestiere di curatori.
Perché se molte parole curano e molte domande rimangono aperte, ciò che nessuno riesce a capire è perché nel buio di quei giorni Stefano sia rimasto inerte. Senza incontrare neppure un Samaritano, un Cireneo o un Fratello. Lasciando tutti, dieci anni dopo, con un pesante fardello: quello d’esser stati capaci di fare di tutto su questa storia, film, canzoni e monologhi, non comprendendo che quella tragedia ci richiama tutti al fatto che essere presenti nella nostra di storia è in fondo la più grande delle conquiste. Nella consapevolezza che tutti abbiamo uno Stefano da incontrare lungo il cammino, un volto da imparare a custodire senza niente pretendere, senza giudizio, con pura e semplice – ma mai banale – umanità.