Non ci fu associazione a delinquere: il rito abbreviato cui si sono sottoposti i sei della cosiddetta “banda dello spray” che nel 2018 invasero la discoteca “La lanterna” di Corinaldo, dandosi al taccheggio e provocando il panico con l’uso dello spray al peperoncino, è stato chiaro. E non è dirimente che quel gesto abbia contribuito alla morte di una mamma di trentanove anni e di altri quattro adolescenti: fu omicidio preterintenzionale.

Si chiude in questo modo, con condanne dai 10 ai 12 anni, uno dei capitoli più bui della cronaca nera del nostro paese degli ultimi anni: buio non solo per il giro di malaffare che ha scoperchiato nell’organizzazione di eventi per i preadolescenti, ma anche per le responsabilità gravi che si riversarono su chi aveva precisi doveri di accertare l’omologazione di quel terrazzo – che, è bene ricordare, crollò sotto il peso della calca dei ragazzini nel panico che fuggivano dalla discoteca infestata di spray al peperoncino – e che tutto lasciò correre in nome del sacro guadagno.

Oggi però l’attenzione era sulla banda che, a sentire la sentenza, vera banda non era, ma combriccola di malaffare, dedita a piccoli espedienti criminali, che quella maledetta sera innescò la tragedia, ma non la volle né la cercò. Quei ragazzi, insomma, finirono vittime della loro presunta onnipotenza, cancellando quel che gli antichi chiamavano “timor di Dio” e che non era una paura, ma il presentimento di un argine, di un confine, che impediva alla volontà del singolo di dilagare in quanto essa percepiva la possibilità di una conseguenza, l’evidenza di una responsabilità che era capace di fermare anche il gesto più criminoso. La scomparsa di un orizzonte di senso, sostituito da un baratro di oscurità, non ha prodotto un nuovo insieme di riferimenti morali, ma solo una società che su tutto fa la predica e che non trasmette più qualcosa per cui valga la pena non solo “fare”, ma anche “fermarsi”.

La giustizia si trova così ad assegnare pene che non risolvono il problema più grande in quanto non possono rispondere – pur con tutta la loro durezza – alle domande del perché e del fine per cui le cose accadono. La mamma di una delle ragazze vittime di quella strage, Asia, intervistata dal Corriere, ha espresso bene questa posizione dicendo, con grande dignità e umanità: “Quanti anni avranno (quei ragazzi, ndr)? Sono giovani. Non è tenendoli in carcere il più possibile che può migliorare qualcosa per loro o per il mondo. Possono fare 5-6-20 anni di prigione ma a me quella o quell’altra cifra non dice niente. Se una persona vuole cambiare deve cambiare nell’anima e allora non c’entra che faccia in cella uno o dieci anni. (…) So che è banale dirlo ma Asia non tornerà indietro, qualunque cosa accada a questi ragazzi”.

Nella notte di Corinaldo, ancora una volta, la notte più difficile da accettare è dunque quella che attraversa il nostro tempo e la nostra ultima incapacità di parlare al mondo, presi come siamo dalle nostre comode – e consolanti – quisquilie ecclesiastiche autoreferenziali.