L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito, l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura.



Imperversava questa storia dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive e articoli di giornale con i loro “portaborse” scatenati e a loro volta smaniosi di passare alla storia della (di)sinformazione militante.



De Magistris aprì un’inchiesta basata su prove aeree nel 2007, cominciata con confessioni poi ritrattate. E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani. Gli ultimi che, negli ordinamenti democratici occidentali, sono parificati ai giudici e si rifiutano di seguire la grande separazione di tutti i poteri che, sin dal Settecento, si teorizzava anche nella distinzione tra giudice e pubblica accusa in un processo.

È vero che va di moda Jean-Jacques Rousseau, forse il papà di Robespierre, ma Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, appunto noto come Montesquieu, precisava con forza che se il giudice facesse lo stesso mestiere del pubblico accusatore sarebbe un abuso. Le democrazie di quasi tutto il mondo seguono Montesquieu. 



Ritorneremo su questo principio che tanto irritò uomini come il ministro fascista Dino Grandi (un seguace scatenato della compattezza della magistratura) e quel “signore democratico”, il portoghese Salazar, anche lui appassionato dell’ unicità di vedute tra accusa e chi formula il giudizio. Ora anche il Portogallo ci ha ripensato, ma l’Italia invece difende combattiva la  non separazione.

Per il momento però torniamo alla notizia dell’11 settembre, quando la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Salerno che dichiarava prescritti i reati contestati all’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Salvatore Murone, e all’avvocato generale Dolcino Favi, che avevano avocato all’attuale sindaco di Napoli i fascicoli. Resta valida, dunque, la sentenza di primo grado del tribunale di Salerno che aveva assolto i due magistrati di Catanzaro. E l’assoluzione riguarda anche l’ex senatore e avvocato Giancarlo Pittelli, il procuratore Mariano Lombardi (nel frattempo deceduto) e l’imprenditore Antonio Saladino, “assolti – si legge in una nota – per insussistenza del fatto, così come avvenuto in primo grado”.

Il doppio sconfitto de Magistris a parole non si arrende e continuerà probabilmente a parlare di complotti, ma tutta la sua vicenda è degna di un libro (che infatti è in gestazione) per dimostrare lo strapotere, o forse l’unico potere forte, che è rimasto oggi in Italia, quello della magistratura gestita principalmente, per un lungo periodo, proprio dai pm alla de Magistris.

Per rendersi conto di quanto capitato, vale la pena di vedere quale autogol de Magistris ha fatto in Cassazione e leggere la dichiarazione rilasciata dall’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Murone: “La Cassazione ha finalmente e definitivamente chiuso a mio favore la vicenda ‘Why not’. Tutte le mistificazioni, le bugie, le cattiverie sono finite. L’assoluzione di primo grado è stata ribadita a dimostrazione che le vicende successe al signor de Magistris  non sono il frutto di congiure e complotti, di poteri forti a livelli superiori, ma solo il suo modo di fare il pubblico ministero già stigmatizzato dai provvedimenti di carriera che lo hanno colpito, portandolo fuori dalla magistratura”.

Insomma, Luigi de Magistris, tonitruante sindaco di Napoli, non rispettava neppure le regole della pubblica accusa su un impianto procedurale discutibile, come più volte hanno ricordato tanti uomini politici: Marco Pannella fece addirittura della battaglia per la separazione delle carriere una missione della sua vita e portò Enzo Tortora al Parlamento europeo. Ma la vocazione inquisitoria della tradizione italiana resiste a ogni assalto. Eppure tutti sanno quanto è causa di autentici drammi umani.

“Why not” è durata dodici anni. L’imprenditore Tonino Saladino ha visto sua moglie ammalarsi, i suoi figli storditi dalla sua vicenda umana. Ogni tanto si ricorda sbigottito e sgomento il 12 marzo 2007, quando alle sette di mattina gli piombarono in casa i carabinieri per un’ispezione alla ricerca di carte che neppure sapevano che cosa fossero o rappresentassero.

Tutta quella storia di “Why not” fu uno scontro durissimo che coinvolse il governo dell’epoca, quello di Romano Prodi, che alla fine andò in crisi, il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, e sua moglie. Per placare le acque all’interno della magistratura e nel perenne scontro tra magistratura  e politica dovette intervenire nel 2008 anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

Non era una novità, in quegli anni della già affermata cosiddetta “seconda repubblica”, in un Paese destabilizzato da svendite di grandi aziende pubbliche, da una cronica mancanza di crescita, da una confusione demenziale della classe dirigente politica e imprenditoriale  e inoltre dalle “ventate” dei nuovi Irnerio, dai magistrati pretendenti al ruolo di nuova  “lanterna iuris”, che spopolavano ovunque nel Paese.

La vicenda, come noto, era cominciata nel 1992, quando risvegliatasi dal suo torpore, la magistratura italiana aveva “scoperto” le tangenti politiche, che esistevano dal 1946. Un tempismo da comiche di Gianni e Pinotto. Con il modesto corollario di circa “mille miliardi di lire” (il calcolo è stato fatto da Stéphane Courtois) che affluivano dall’Urss, potenza ufficialmente nemica, al partito comunista più forte dell’Occidente, il Pci. Tutto amnistiato, naturalmente!

In fondo la vicenda di “Why not” era il seguito inevitabile delle apparizioni televisive, in gruppo, del “pool di Mani pulite”, delle sensazionali “rivelazioni” che qualche “gatto” suggeriva al Corriere della Sera direttamente dal Palazzo di Giustizia milanese. È stata una lunga cavalcata non molto edificante, con alla fine un Francesco Saverio Borrelli che confessa i suoi dubbi a Marco Damilano; con la sempre cacofonica parlata giurisprudenziale italiana del “grande manettaro” Antonio Di Pietro; con la visione del “geniale” Pier Camillo Davigo che pensa di trovarsi di fronte a 60 milioni di italiani potenzialmente colpevoli, che naturalmente devono giustificare la loro condotta. Passando intanto tra la battaglia delle “correnti” all’interno della magistratura per arrivare sino alla “pagina nera” del Consiglio superiore della magistratura, con il clamoroso “caso Palamara”, di cui si cerca di parlare il meno possibile in tv e sui giornali. Strano!

O meglio, strano che quello che emerge da questo stato di diritto, dove la giustizia segue tempi scoraggianti, dove gli aspetti inquisitori sono sempre prevalenti, non si abbia il coraggio di riconoscere che in Italia questa amministrazione giudiziaria è gestita da una casta feudale, dove le procure rappresentano i feudi superstiti o dei nuovi feudi, che ogni tanto si fanno pure la guerra l’uno contro l’altro, spesso in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale o secondo interpretazioni delle norme che farebbero inorridire un filosofo del diritto come Hans Kelsen.

La speranza di una riforma naufragano per le “intemerate” (come altro giudicarle?) di Marco Travaglio, che spesso anticipa i tempi persino delle sentenze. Ma non viene neppure dal nuovo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, un fedele di Giuseppe Conte, quindi un visconte per tradizione feudale.

E pensare che la riforma della giustizia, in agenda del nuovissimo governo, ora che i “grillini” sono diventati europeisti con Ursula von der Leyen, dovrebbe rispettare, o almeno tenere in considerazione, la risoluzione numero 112/97 approvata dal Parlamento europeo il 4 luglio 1997, dove tra l’altro si dice: “È anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo  tra la carriera dei magistrati – i cosiddetti examining magistrates- e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto”.

Insomma quello dove si condanna oltre ogni ragionevole dubbio.

Perché non si organizza su questo tema un bel convegno tra de Magistris, Davigo, Di Pietro e Travaglio come moderatore? In questo caso, lo spettacolo sarebbe assicurato e poi si potrebbe emigrare tranquillamente.