È diventato sin quasi troppo semplice attaccare la magistratura italiana, sopratutto i pubblici ministeri che gestiscono la parte che dovrebbe essere accusatoria, ma che in realtà rivela solo una spiccata e cocciuta vocazione inquisitoria.
Dopo venti anni di indagini (si fa per dire), di rivelazioni di presunti pentiti (il figlio di Vito Ciancimino è quasi patetico), di un processo in primo grado con condanna, e di altri collegati con alcune assoluzioni più particolari, la trattativa Stato-mafia, un modo di dire diventato quasi una certezza, uno scontato luogo comune, è andata a schiantarsi di fronte alla corte d’appello di Palermo, dove tutte le accuse, o meglio il teorema delle varie accuse, sono crollate e gli imputati, appunto dopo venti anni secondo costume italiano, sono stati assolti e sono stati scagionati perché il fatto non sussiste.
A questi imputati, a questi uomini oggi liberi hanno tolto anni di vita con un cinismo che si può definire barbaro e che non ha nulla a che fare con uno Stato democratico. Un sorta di regime che ha colpito uomini che non avevano alcuna colpa.
Così è capitato al generale Mario Mori e ai suoi colleghi Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Ma (udite, udite!) è stato assolto anche l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, che era ormai entrato nelle favole dei bambini come l’uomo nero, le méchant, perché avrebbe fatto l’ambasciatore della mafia per Silvio Berlusconi.
Ha sintetizzato ieri con bravura Marcello Sorgi: negli anni Novanta si affermava, forse “nei bar della politica”, che Giulio Andreotti era il capo della mafia, il ministro Calogero Mannino era il negoziatore di un accordo con i boss mafiosi, Dell’Utri era il prosecutore del gruppo di comando del centrodestra nel negoziato, proseguito da una repubblica all’altra, con Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il teorema è stato, per un certo periodo, accolto incredibilmente come vero da un Paese completamente frastornato.
Non è difficile comprendere lo scopo di questa immaginaria e non dimostrata sintesi criminale. La trattativa tra Stato e mafia veniva pochi anni dopo Tangentopoli e quindi rappresentava un’altra botta alla credibilità della Repubblica. Era quindi di grande utilità per i nipotini, di tutte le tendenze, da Leonid Breznev ai “rivoluzionari da salotto”.
Strano ad esempio che un giornale come il Corriere della Sera, che sparava titoli di grande forza editoriale su questa “vergognosa trattativa” rivelatasi immaginaria, ieri abbia dedicato solo due colonne di taglio medio alla decisione della corte d’appello, forse per rispettare la continuità dei direttori che hanno contribuito a scardinare la classe politica italiana, formando autentici clan mediatico-giudiziari, magari collegati a qualche affare finanziario.
Certo, un fatto del genere, dopo l’affare Palamara, dopo quello che è successo al Csm, dopo quello che sta accadendo alla procura di Milano, dopo il tonfo di credibilità della magistratura, sarebbe logico mettere in calendario una commissione d’inchiesta. Ma non succederà, la commissione ( scommettiamo) non si farà perché questo è il Paese dell’ipocrisia e della storia manomessa. Perché questo è il paese che non conosce, e nelle scuole non si insegna, che cosa accadde dopo l’8 settembre 1943, perché non si conosce neppure chi era il capo della Resistenza e forse c’è pure qualcuno che pensa che lo sbarco in Normandia sia partito da Stalingrado, città che in Russia non esiste più. È il Paese dove non c’è una strage che, dopo anni, conosca i colpevoli sicuri.
Il problema della grande confusione è certamente la magistratura con lo strapotere che, unici nel mondo democratico occidentale, hanno i pm in Italia, ma accanto a questa categoria che parte dalla presunzione della colpa al posto di quella dell’innocenza, c’è un mondo mediatico che non è mai stato libero ed è stato sempre al servizio di grandi poteri economici o finanziari.
Infine c’è una pletora di “intellettuali dei miei stivali”, che sono stati influenzati dalla cultura togliattiana e da quella cattocomunista fin dall’immediato dopoguerra, popolando redazioni, scuole e università che si ponevano lo scopo di stabilire un’egemonia culturale di estrema sinistra o comunque di critica alla democrazia occidentale. Alla fine ci si è trovati di fronte a un regime mediatico-giudiziario con interessati proprietari di altri interessi di quelli provenienti dai giornali.
Dice Sabino Cassese: “È in crisi la nostra democrazia. Ma perché nessuno si chiede perché sia in crisi la comunicazione scritta e quella televisiva?” Da dove nasce il sessantotto fino alle derive terroristiche? Da dove nasce la contestazione contro uomini come Renzo De Felice, storico che veniva contestato sui banchi universitari, e contro Giampaolo Pansa che, uomo di sinistra, si era impegnato con passione a scrivere Il sangue dei vinti e quando doveva presentare un suo libro bisognava chiamare la polizia?
Si è voluta creare un’egemonia culturale che prima è franata sotto la caduta del Muro di Berlino e poi si è riciclata, oltre a tutto in pieno neoliberismo finanziario, in una forza contro la casta, contro i partiti politici, contro i corpi intermedi, contro la lenta evoluzione verso una società sempre più democratica, senza alcun programma o visione accettabile e riconoscibile.
Al momento, malgrado gli errori fatti in questi trenta anni, questa “coalizione” scombussolata, che non ha nulla a che vedere con la politica, sembra che sia entrata in difficoltà. Ma certo, si è vissuto per circa trent’anni sotto l’egemonia di un pensiero unico, un autentico regime culturale del menga che ha fatto crollare la grande cultura che disponeva questo Paese.
È difficile immaginare un futuro per l’Italia. Anche tecnocrati con buona caratura politica come Mario Draghi decidono e non parlano, lasciano ai resti dell’antipolitica di dibattere sul nulla o quasi. Ma non sarà facile affrontare le prossime scadenze elettorali, le necessarie riforme che vanno dal riscatto produttivo a un nuovo impianto costituzionale, da una riforma fiscale a un nuovo sistema che amministri la giustizia.
Forse il regime mediatico-giudiziario sta andando in crisi perché i vecchi “capitani di sventura”, cioè la classe imprenditoriale che produceva anche giornalismo (altra rarità italiana) è quasi fallita e poi si è trasferita all’estero per pagare meno tasse. Ma la partita non è semplice ed è difficile, di fronte a tanta confusione, immaginare un risultato finale.
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