Nel mondo dominato dalla virtualizzazione della realtà abbiamo quasi distrutto il più importante risultato degli ultimi trent’anni: l’interdipendenza. La guerra in atto destabilizza l’interdipendenza. I suoi effetti sono già evidenti nell’economia già affaticata dagli anni pandemici e che ora deve far fronte ad un aumento esponenziale dei prezzi delle risorse. Inoltre, la perversa logica in atto – cioè quella fondata sulla repressione, la vendetta e l’umiliazione dell’avversario – rischia di portare i prezzi dell’energia a livelli insostenibili (JPMorgan ipotizza fino a 380 dollari al barile) con conseguenze sociali da rabbrividire. Non era prevedibile tutto questo?
Mentre la guerra guerreggiata continua inesorabile con il susseguirsi di battaglie, attacchi e contro attacchi, notizie vere, false, e manipolazioni informative, l’interesse sociale per le cronache decresce focalizzandosi sulle conseguenze immediate sulla vita di chi non subisce direttamente la violenza bellica e soprattutto sulle prospettive del futuro. Le conseguenze immediate sono economiche e quindi sociali con effetti profondi sullo stile di vita, la disponibilità di benessere, la sostenibilità ambientale, sociale e di governance. Le prospettive del futuro sono incerte ma indicano che non si tornerà al modello che ha caratterizzato il mondo dal 1945 al 24 febbraio 2022. Cerchiamo di capire qualcosa.
Questa è la fotografia della situazione in questo mese di luglio. La guerra che coinvolge il territorio e le popolazioni dell’Ucraina è la rappresentazione, drammatica e macabra, del “duello tra Russia e Stati Uniti d’America: posta in gioco è l’Europa, vittima sacrificale è il popolo ucraino”. Così si legge nell’editoriale di Limes che ammonisce di “pregare” perché “da questo conflitto nascerà un nuovo disordine mondiale. Non un ordine, perché chiunque vinca, o sopravviva, non sarà in grado di riprodurre la Pax Americana. Nemmeno l’America”.
E in contemporanea, un fine diplomatico italiano chiosa che “tutti i calcoli delle democrazie liberali sull’esito del conflitto in Ucraina, sul collasso russo, sull’unità globale contro Mosca, si sono finora rivelati sbagliati (…) la responsabilità più grande è stata aver approvato frettolosamente un massiccio pacchetto di sanzioni verso il più grande produttore mondiale di materie prime (la Russia) senza effettuare una previsione preventiva sull’impatto che queste avrebbero avuto – per il prossimo autunno tutti farebbero meglio a prepararsi per i forconi o per l’ennesimo crack finanziario…”.
Mentre il mondo occidentale si contorce su vecchie letture ideologiche delle relazioni internazionali – in interpretazioni realiste o liberali, da Kissinger a Biden, da Macron a Draghi, da Stoltenberg a von der Leyen – la guerra in atto sconvolge il tradizionale pensiero binario (civilizzati/barbari, democratici/autocratici, ecc.). Le vecchie teorie novecentesche realiste e liberali non bastano più per leggere la realtà odierna del mondo che ha subito in meno di due generazioni (50 anni) una complessificazione accelerata – demografica, ambientale, tecnologica – senza pari nella storia dell’umanità. Le teorie novecentesche, figlie del razionalismo e del positivismo, credono di poter scomporre i fenomeni complessi, per semplificarli, in processi più piccoli, misurabili, e quindi governabili. Il loro engineering e re-engineering, tipicamente usato nelle ristrutturazioni (“riforme strutturali”), si fonda sulla convinzione che l’essere umano prevalga sulla natura essendone capace di governarne i processi, e quindi poter ottenere i risultati auspicati. Una logica che si è già dimostrata limitata e fallace – crisi finanziaria del 2008; riscaldamento globale nel 2018; pandemia nel 2020 – perché non considera le implicazioni di una comprensione post-umana (olistica, “armoniosa”) dei fenomeni, cioè il fatto, ben chiaro nella cultura tradizionale asiatica, che siamo ciascuno parte dell’Uno. Quell’Uno è energia vitale che designa un ordine universale ed armonioso, intrinseco sia alla natura umana che al mondo della realtà oggettiva.
Riflettendo sull’organizzazione del mondo attuale – proliferazione di regolamenti, disfunzioni delle macchine amministrative, diseguaglianze inaccettabili – è urgente far ritorno a principi più generali. Sul piano spirituale, non è un caso che la Chiesa cattolica abbia ammonito sul pericolo incombente con tre encicliche: Centesimus Annus (1991), Caritas in Veritate (2009), e Laudato Si’ (2015). È molto significativa la disposizione temporale di queste encicliche: nel 1991 si dissolse l’Urss e la risposta occidentale fu la “globalizzazione”; nel 2009 si vivevano gli effetti post-traumatici della crisi finanziaria e la risposta occidentale fu l’atopia della tecnofinanza; nel 2015, “la casa comune” era in grave pericolo e la risposta occidentale è stato l’effimero climate change.
È evidente che il pensiero occidentale fa fatica ad abbandonare il darwinismo culturale che lo caratterizza da cinque secoli. Le relazioni internazionali non fanno eccezione. La complessità non la si capisce con le lenti ideologiche, realiste o liberali, ma con l’integrazione di conoscenze che studiano le “reti di attori”, ispirandosi alle neuroscienze e alla fisica quantica, per esplorare le infrastrutture della politica mondiale e per superare il determinismo tecnologico particolarmente nella relazione uomo-computer, in cui una tecnologia viene utilizzata per agire e prendere decisioni per conto di un utente e determinando effetti sociali (il fuorviante dibattito sulle fake news, le interferenze).
L’Occidente come pura pratica funzionale (logocentrismo) non è e non può essere universale. Lo dimostra il debole seguito che la battaglia sui “valori”, tanto cara ai dirigenti americani e dell’Unione Europea, ha sia all’interno che all’esterno. Questi dirigenti sembrano non rendersi conto che la crisi di fiducia è profonda, rimanda ad origini storiche e si aggrava con l’avvitarsi della crisi economica e sociale. La fiducia, appunto, non si costruisce con approcci ideologici ma con un costruttivismo sociale che sviluppi e identifichi principi minimi percepiti come comuni. Le sanzioni non costruiscono la fiducia all’interno e all’esterno. Vecchio strumento di supremazia, oggi le sanzioni distruggono senza imporsi e senza imporre.
L’Occidente costruisce muri e coalizioni armate sotto l’egemonia dell’isola americana sempre più in affanno da prestazione: Italia, Regno Unito, e Francia devono confrontare la Cina (la Nato tradizionale); i tre Baltici, la Polonia e la Romania devono confrontare la Russia (la nuova Super Nato). Mentre i dirigenti europei si trastullano in dibattiti su una futuribile architettura di sicurezza (Helsinki 2) Europa delenda est! La partita sta sfuggendo di mano ai suoi protagonisti.
Intanto, qualche segnale arriva dalla Russia e dalla Cina insieme all’India e con la “neutralità positiva” del variegato insieme Brics. Si muovono i primi passi per un nuovo ordine commerciale e militare che vuole superare la “necessaria” occidentalizzazione, cioè l’alienazione e la perdita di identità culturale.
Non esiste una tradizione (valori) più globalizzante e soddisfacente per comprendere la vita. L’unico cammino, per evitare catastrofi da non ritorno, è un vero dialogo fra le interrogazioni radicali dell’uno e le originali concezioni degli altri. Pensiamo il mondo altrimenti.
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