Dall’ultima conferenza stampa del primo ministro Conte non è evidentissimo capire la linea del governo per l’annunciata fase 2. Avvicinandosi il traguardo dei due mesi di uno dei più duri lockdown europei, il bisogno di mostrare al Paese che qualcosa si muove è ovviamente fortissimo. Da un lato è necessario dare un premio psicologico agli italiani che hanno supportato interamente sulle loro spalle il contrasto al coronavirus, vedendosi massicciamente limitati nelle proprie libertà personali; dall’altro bisogna riaprire le imprese, altrimenti il rischio del collasso economico-industriale dell’Italia diventa uno scenario reale. In realtà a due mesi dallo scoppio della pandemia una strategia efficace per sconfiggere il virus dovrebbe consentire azioni tali da poter procedere su entrambi i binari, quello delle libertà civili e quello delle libertà economiche.
Il governo non sembra però aver consapevolezza della necessità di adottare una strategia ampia che abbracci tutte le fasi, da quella del contenimento – la famosa fase 1 in cui probabilmente ancora non siamo neanche entrati – fino alla fase 3, quella post-vaccino di cui non sappiamo quando arriverà ma siamo consapevoli che sarà tutta spostata sul problema della ricostruzione.
Per il momento siamo bloccati nella fase dell’insicurezza biologica, in cui abbiamo guadagnato tempo con il lockdown, ma non abbiamo compiuto passi in avanti. È scomparsa dal radar l’opzione della difesa tecnologica con il tracciamento dei dati di tutta la popolazione attraverso una App, su cui si appuntavano molte speranze; al tempo stesso non sembra che i mesi di chiusura forzata siano stati utilizzati per approntare e mettere in atto protocolli molto rigidi di difesa fisica, attraverso le sanitarizzazioni degli ambienti e l’uso massiccio dei dispositivi di protezione individuali.
A maggio, dunque, non si apre la sperata fase 2, ma piuttosto si avvia una ibrida fase 1,5 in cui siamo costretti a riaprire anche in un contesto di espansione del virus e di insicurezza biologica, per cui alcune attività possono essere riattivate solo correndo un rischio elevato che può essere bilanciato solo a scapito di altre attività che, per bilanciare il rischio assunto, devono restare compresse.
È una scelta politica, a suo modo coraggiosa questa del governo che si apre con il mese di maggio quando inizierà una nuova fase. Ma ci sembra una politica dell’emergenza e non una fase derivante da una più ampia grand strategy nazionale per uscire dalla crisi pandemica.
Purtroppo la mancanza di una strategia non è un semplice fattore politico ma un deficit culturale più ampio nel nostro Paese. Questo anche se negli ultimi mesi vi è stato un enorme ricorso al concetto di “strategia”, il cui significato appare però essere incompreso o sfuggire ai più. La strategia non è mai gestione della crisi, né essa è un processo che può essere improvvisato nel corso di un’emergenza. La strategia è sempre qualcosa preparata ieri in vista del futuro e non un piano d’azione per il presente; questa si chiama tattica, ed anch’essa deriva dalla strategia che avevamo adottato ieri. La strategia è un piano che doveva essere già disponibile nelle sue linee essenziali e che andava affinato nelle primissime settimane della crisi; come tutte le strategie, essa doveva porsi il problema di come raggiungere alcuni obiettivi concordati a partire da determinate risorse disponibili.
L’allocazione delle risorse e la determinazione degli obiettivi spetta ai politici; il come raggiungere quegli obiettivi con quelle risorse agli strateghi, che oggi si potrebbero chiamare tecnici. Risorse ed obiettivi sono però i due poli fondamentali da cui partire e che rendono possibile la creazione di una strategia: uno stock di risorse da attivare ed obiettivi da raggiungere ad esse proporzionati. Il bravo stratega è quello in grado di tenere in equilibrio risorse ed obiettivi anche in un ambiente incerto ed imprevedibile, in cui sono in ballo interessi vitali, non è escluso il conflitto con altri attori ed occorre fare scelte drastiche su cosa tutelare e cosa perdere.
I tecnici ed i consulenti del governo oggi abbondano, quantomeno a giudicare dal numero delle task force e alle centinaia di eminenti personalità coinvolte. Ma di strateghi appare non esservi traccia. Non che i tecnici non abbiano una loro strategia. Ma queste sono strategie funzionali, fortemente legate ad uno specifico settore. Esse da sole non possono portare un Paese fuori dalla pandemia.
Per questo c’è bisogno di una strategia nazionale complessiva, da cui discendono poi le strategie funzionali. Una grand strategy che prioritarizza gli obiettivi immensi da raggiungere con risorse scarse, la maggior parte delle quali, tra l’altro, attivate a debito, è un’operazione che a nostro avviso può essere tentata solo facendo a monte scelte politiche molto forti su cosa salvare e cosa correre il rischio di perdere, scegliendo le azioni vitali rispetto ad altre ritenute meno strategiche. Un’operazione che non ha nulla di tecnico ma che è pienamente politica. E che non può non abbracciare tutte e tre le fasi, da quella dell’emergenza di oggi a quella della collocazione geopolitica dell’Italia quando una certa normalizzazione sarà ripristinata.
L’unica strategia possibile per portare l’Italia fuori dalla pandemia è multifase. Parte dalle mascherine che mancano oggi e finisce nella collocazione geopolitica futura del Paese. La strategia va costruita almeno a cinque anni da oggi, dando grande rilievo alla fase della ricostruzione che si giocherà ad oltre due anni da oggi ma che sarà la vera fase strategica. Qui il gioco geopolitico diventerà massimo e saranno testate le alleanze, gli aiuti effettivi si distingueranno da quelli propagandistici, si potranno comparare le diverse condizionalità.
L’architrave di tutta la strategia, anche quella da attuare nella fase 1, deve dunque essere il punto di arrivo auspicato nella fase 3, ossia quale Italia vogliamo trovare in piedi tra cinque anni e in quale collocazione geopolitica, con quali amici e quali avversari. Serve dunque una strategia multifase che, in primo luogo, divida le risorse e le azioni da compiere per un periodo di 3-5 anni e che abbraccia tutte e tre le fasi.
Qui è necessario segnalare che, anche in questo approccio, è insito un dilemma politico forte: devono essere le fasi 1 e 2, quelle della lotta biologica contro il virus, a determinare la fase 3, quella della ricostruzione e della collocazione geopolitica dell’Italia in un nuovo livello internazionale? oppure è la fase 3 che rappresenta la scelta strategica chiave da cui partire e da essa derivano a ritroso le fasi precedenti?
Questo è probabilmente il tassello mancante che impedisce all’Italia di scegliere la sua via per uscire dalla pandemia: trovare la sua via geopolitica e percorrerla fino in fondo, trovando in essa gli alleati, le risorse, i vincoli i condizionamenti con cui costruire la sua equazione risorse-strategia-obiettivi. Perché è evidente per la gravità di come il virus ha colpito il nostro Paese e la scarsità di risorse a disposizione che l’Italia non si potrà salvare in autarchia, ma sia per la fase della sicurezza sanitaria ed ancora di più per la ricostruzione c’è un bisogno disperato di alleanze solide e convinte, basate su interessi chiari e non predatori. Se si dovesse partire proprio da queste?