Mentre il Parlamento ha fatto nuovamente cadere nel vuoto gli appelli del Presidente Mattarella, non eleggendo per l’undicesima volta i quattro giudici costituzionali mancanti, e la Cassazione ha in parte confermato la condanna nel processo a carico di Davigo – ex pm di Mani Pulite ed ex consigliere del Csm, accusato di rivelazione del segreto d’ufficio in merito alla vicenda dei verbali di Piero Amara su una presunta Loggia Ungheria – ordinando poi un nuovo processo d’appello sulla rivelazione a terzi dei verbali, la notizia di maggior rilievo per quanto attiene la giustizia è senz’altro quella relativa all’approvazione da parte della Commissione affari costituzionali della Camera della riforma costituzionale della separazione delle carriere fra giudici e pm.
La Commissione ha infatti respinto tutti gli emendamenti al disegno di legge costituzionale, fissando la discussione generale in aula per il 9 dicembre, con le presumibili votazioni per gennaio. La prima considerazione attiene al dato politico: il governo è infatti riuscito ad imprimere una concreta accelerazione all’iter del provvedimento, decidendo di dargli precedenza rispetto all’altra riforma costituzionale in cantiere ovvero quella sul premierato, molta cara alla Meloni e già approvata dal Senato in prima lettura. Appare evidente che la forte accelerazione, resa possibile dalla scelta di convocare ad oltranza la Commissione affari costituzionali in varie sedute notturne per completare i lavori, risulti palesemente legata ai recenti contrasti insorti con la magistratura sulla vicenda dei trasferimenti dei migranti in Albania.
Altre considerazioni devono invece essere rivolte al merito della riforma. Ebbene, il progetto varato dal Consiglio dei ministri a maggio introduce all’articolo 102 della Carta costituzionale il principio delle carriere distinte fra giudici e pm, affidandone l’attuazione alle norme sull’ordinamento giudiziario. Al contempo, si prevede lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura: uno per le toghe giudicanti e uno per quelle requirenti. Non di meno, sebbene meno reclamizzato degli altri aspetti, il disegno di legge costituzionale rivoluziona il metodo di elezione di entrambi i futuri Csm, prevedendo che essi siano composti interamente da membri selezionati tramite sorteggio: sia i cosiddetti “laici“ che i “togati“ non saranno più eletti. Lo scopo è ovviamente quello di prosciugare la linfa che alimenta da sempre le tanto vituperate correnti. Per i magistrati l’estrazione sarà secca, ovvero avverrà fra tutti i magistrati senza alcuna pre-candidatura, consentendo così la possibile elezione di coloro che non partecipano alla vita associativa, ovvero i cosiddetti indipendenti, di cui negli ultimi anni si è registrata l’elezione di solo un consigliere. Per i laici invece il sorteggio avverrà nell’ambito di un elenco compilato dal Parlamento.
Due gli aspetti su cui vale la pena soffermarsi. Secondo la maggioranza degli studiosi del processo penale e l’avvocatura, la separazione delle carriere rappresenta una inevitabile conseguenza dell’introduzione in Italia, avvenuta nel 1988, del sistema processuale accusatorio, che a sua volta aveva sovvertito la radicata tradizione inquisitoria della nostra cultura giuridica. L’evoluzione fortemente voluta dal legislatore degli anni 80, spinta emotivamente sull’onda del caso Tortora, e poi ripresa dalla modifica costituzionale del 1999 con l’introduzione in Costituzione del principio del contraddittorio, non può che essere accompagnata dalla netta separazione delle carriere.
Il processo accusatorio di matrice anglosassone è un processo di parti, in cui, di fronte a un giudice terzo, gli avvocati dell’accusa e quelli della difesa si confrontano sulla colpevolezza o meno dell’imputato. Certo, si dirà, il sistema accusatorio americano non è completamente esportabile da noi. Lì il pubblico ministero è un avvocato che viene selezionato dal procuratore capo a sua volta eletto dalla cittadinanza. Da noi invece il pm resterà un magistrato vincitore di un concorso pubblico, ma l’eredità del sistema inquisitorio – in cui il pretore era pm e giudice, in cui il giudice istruttore svolgeva le indagini acquisendo la prova in modo unilaterale – è rimasto nel Dna della magistratura, non agevolando la diffusione di una nuova cultura processuale in cui il mestiere del giudice è del tutto diverso da quello del pm, che in quanto parte è più vicino all’avvocato che non al giudice. È anche vero che negli anni le maglie si sono strette e i passeggi da un ruolo all’altro si sono quasi azzerati, così come la lontananza fra i ruoli ha iniziato finalmente a marcarsi. Resta tuttavia una questione di coerenza del sistema processuale adottato.
Al contempo, il timore dell’assoggettamento del pm all’esecutivo pare francamente strumentale.
L’introduzione in Costituzione dell’autonomo Csm scongiura colpi di mano di future maggioranze. Le garanzie restano le stesse di adesso. Molto più delicato e concreto è invece il pericolo che il pm assuma sempre di più le fattezze di un superpoliziotto. Tuttavia, anche la bandiera della cultura della giurisdizione appare sempre più scolorita, come ben sa chiunque frequenti abitualmente gli uffici giudiziari. Insomma, da questo punto di vista, la riforma della separazione delle carriere mette semplicemente ordine rispetto al sistema processuale in vigore nel nostro Paese, rafforzando la terzietà del giudice.
Tuttavia, sul punto occorre essere estremamente chiari: tale riforma non inciderà per nulla sul versante dell’efficienza. Al netto delle acclamazioni degli opposti schieramenti politici, così come la riforma non indebolirà la magistratura e né tantomeno le toglierà autonomia e indipendenza, essa di certo non aggiusterà i guasti dell’attuale mal funzionamento.
Ritardi, inefficienze e trascuratezze necessitano di altri interventi. In primo luogo sul fronte della responsabilità della magistratura: la vera chiave di volta. Per carità, non mancano uffici giudiziari organizzati e singoli magistrati dediti al proprio lavoro oltre che estremamente competenti, anzi essi rappresentano la maggioranza silenziosa della categoria senza dubbio alcuno. Esistono tuttavia anche e soprattutto vicende come quella di Stefano Esposito, politico del Pd, che non possono non essere evocate per far comprendere quanto il sistema sia al collasso. Un vero e proprio calvario giudiziario, come se ne vedono tanti per la verità, in cui un cittadino, al di là del suo ruolo pubblico, è stato fatto oggetto di decreto di archiviazione dopo ben sette anni di pendenza della vicenda giudiziaria che era stata avviata dalla procura di Torino. Tirato in ballo nell’ambito di una maxi inchiesta avviata da un pm (che non citiamo per nome onde evitare personalismi) per un presunto scambio di favori con l’imprenditore Giulio Muttoni, ex patron di una società promotrice di spettacoli e amico d’infanzia, a Esposito erano stati contestati reati gravissimi, soprattutto per un politico all’epoca in piena attività: turbativa d’asta, corruzione e traffico d’influenze. Dopo un primo rinvio a giudizio, la Cassazione ha trasferito a Roma per competenza gran parte delle carte, disponendo l’annullamento del rinvio a giudizio, statuendo altresì che non solo i magistrati torinesi non avrebbero dovuto indagare per palese incompetenza territoriale, ma lo hanno fatto violando la legge. Esposito venne intercettato illegalmente tra 2015 e 2018, in quanto i pm torinesi sapevano fin dall’inizio che era un parlamentare e che dunque dovevano chiedere preventivamente l’autorizzazione al Senato. Ad ogni buon conto, nel merito dell’attività inquisitoria, nel richiedere l’archiviazione, i pm di Roma hanno smontato una per una le contestazioni, arrivando a concludere che non solo Esposito non ha approfittato per vantaggi personali o altrui (ipotesi liquidata come “congetturale spunto investigativo”) del suo ruolo di parlamentare, ma che non sono ravvisabili reati, definendo “irragionevole” l’ipotesi accusatoria.
La vera riforma sarà pertanto quella che riuscirà a contenere il più possibile la creazione di tali ferite, che certo non si rimarginano facilmente, mentre la sofferenza è sempre a lungo termine. L’errore è insito in tutte le professioni umane, ma occorre che chi sbaglia inizi a pagare e che inoltre non si debbano aspettare tempi infiniti per vedere riconosciute le proprie ragioni.
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