L’ombra del Kgb si allunga sul caso Aldo Moro. Dopo l’intervento di Luigi Zanda, che su Repubblica ha rilanciato il tema delle eventuali responsabilità dell’Unione Sovietica nella diffusione del terrorismo di sinistra negli anni Settanta, invitando ad aprire i principali archivi delle “potenze che allora si occupavano del terrorismo internazionale. Stati Uniti e Unione Sovietica certo, ma anche Germania, Francia, Inghilterra, Israele“, cui bisognerebbe aggiungere anche la Libia e le diverse fazioni palestinesi, è Miguel Gotor, ad analizzare la situazione. Secondo lo storico romano, però, non c’è da farsi particolari illusioni sulla possibilità di risalire alla verità sul rapimento dello statista democristiano. Questo perché “nel caso in cui degli Stati stranieri scelgano di servirsi del terrorismo per destabilizzare la realtà interna di un Paese nemico o concorrente lo fanno con cover action o interventi “sotto falsa bandiera” che non trovano riscontro negli archivi perché questo tipo di operazioni è affidata all’oralità per elementari ragioni di sicurezza e di autotutela dei loro promotori. Inoltre, se dei documenti sono sfuggiti all’autocensura e alle continue procedure di distruzione cui sono sottoposti, essi possono riaffiorare, di solito come merce di scambio e di accreditamento, soltanto quando si verifica il collasso di uno Stato a causa di guerre o di eventi rivoluzionari“.
ALDO MORO, IL DOSSIER MITROKHIN
L’esempio quanto scritto da Miguel Gotor è quanto accaduto nel 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Proprio dalle sue macerie venne a galla, tra il 1992 e il 1995, il cosiddetto “Dossier Mitrokhin“, nell’ambito di un’operazione spionistica condotta dall’intelligence inglese. Figura chiave in questo senso è quella di Giorgio Conforto, morto nel 1986, che il dossier Mitrokhin individuò nel 1995 come uno dei principali agenti di influenza del Kgb in Italia dai tempi del fascismo in poi. Nella casa romana della figlia del maggiore punto di riferimento dei servizi segreti sovietici nel Belpaese venne ritrovata, nel maggio 1979, la mitraglietta che uccise Aldo Moro. Nella stessa abitazione vennero arrestati i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, che in viale Giulio Cesare avevano trovato riparo su indicazione di Franco Piperno e di Lanfranco Pace, per sfuggire alla vendetta degli ex compagni delle Brigate rosse che ipotizzavano il loro tradimento nella gestione del sequestro di Aldo Moro. Nel febbraio 2004 fu Francesco Cossiga, nel corso di un’audizione in Commissione Mitrokhin, a rivelare di avere appreso dal prefetto Ferdinando Masone che Morucci e Faranda erano stati arrestati per intervento di Conforto, che conosceva la vera identità dei due clandestini e li aveva consegnati alle autorità di polizia italiana.
Gotor azzarda: “Verrebbe fatto di pensare, nell’ambito di una collaborazione dei servizi sovietici con quelli italiani, per impedire che in Italia nascessero nuovi fuochi di guerriglia, una disponibilità non dimostrata negli anni precedenti, quando Conforto già aveva infiltrato gli esponenti di quella magmatica area eversiva. Un altro elemento, infatti, è è che la sorella di Conforto, professoressa di Fisica alla Sapienza, possedeva una mansarda in via di Porta Tiburtina, che utilizzava per riposarsi tra una lezione e l’ altra. Il caso vuole che sullo stesso pianerottolo la polizia scoprì il 28 aprile 1977 un covo delle Brigate rosse frequentato, tra gli altri, dal marito della Faranda. Tra centinaia di migliaia di case presenti a Roma, proprio lì“.
ALDO MORO: GIORGIO CONFORTO FIGURA CHIAVE…
Il terzo elemento sui Miguel Gotor riflette è che “la proprietaria del principale covo delle Brigate rosse nella capitale, quello di via Gradoli che ospitò Mario Moretti durante il sequestro di Moro, secondo una nota investigativa del luglio 1979 «conoscerebbe molto bene», sin dal 1969, la figlia di Giorgio Conforto che l’ex ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani ha definito nel suo libro di memorie «una seguace di Pietro Secchia», nell’ambito di un ragionamento più generale riguardante i legami intercorsi fra «i brigatisti e i superstiti secchiani, sparsi qua e là in Italia“. Lo storico ha continuato:”La casa della figlia del più importante riferimento del Kgb in Italia è stata ritrovata l’arma che ha ucciso Moro e sono stati arrestati due brigatisti che parteciparono a quell’operazione. Inoltre, la stessa persona, sempre tramite la figlia, avrebbe potuto avere agevolmente dei rapporti anche con il covo di via Gradoli che ospitò Moretti. Si ammetterà che, se identici elementi fossero stati riscontrati al riguardo di un ipotetico agente di influenza della Cia in Italia, l’ opinione pubblica nazionale avrebbe considerato il caso Moro chiuso, attribuendo la sua morte agli Stati Uniti. Su questi temi è necessario evitare due scorciatoie interpretative. La prima è quella che riduce la storia della lotta armata in Italia, che non si esaurisce certo nelle Brigate rosse, a una dimensione meramente criminale“.
Gotor conclude:”Essa è stata un fenomeno troppo vasto e di lunga durata perché non abbia avuto motivazioni di carattere politico, ideologico, culturale, sociale, economico, che hanno le loro radici nella storia nazionale. Le vicende del Partito armato sono anzitutto e soprattutto una storia italiana ed è con questa verità storica che bisogna avere il coraggio di fare i conti. La seconda è quella che indugia in modelli interpretativi che vorrebbero spiegare quei fatti soltanto attraverso l’eterodirezione dei servizi di spionaggio italiani o stranieri. Una lettura semplificata, in fondo tranquillizzante in quanto autoassolutoria, che finisce paradossalmente per coincidere con la visione cospirativa e ossessionata dei terroristi. Così facendo, infatti, non si rende giustizia alla storia d’Italia, alla difficile, ma sempre ricercata autonomia della sua classe dirigente e dei propri attori politici e sociali (e chi scelse la sciagurata strada della lotta armata questo fu), al suo ruolo storico dentro il nesso nazionale e internazionale, lungo il fronte principale della Guerra fredda ma anche dentro il campo delle tensioni mediorientali decisive per il controllo del mediterraneo, in cui anche la vicenda Moro deve essere collocata“.