La Serbia dallo scoppio della guerra tra Russia ed Ucraina ha accolto più di 200 mila esuli russi, scappati da Mosca per evitare l’arruolamento forzato sfruttando le regole che gli permettevano di non dover richiedere nessun visto. La maggior parte di loro ha scelto come meta Belgrado, la capitale serba, in cui vivono stabilmente 1,6 milioni di persone. Così tra serbi e russi, che hanno sempre goduto di ottimi rapporti, si è creato un nuovo clima di unione e fratellanza in città.
In Serbia, ora, non è difficile trovare bar aperti da poco completamente gestiti e frequentati da russi, così come le stesse attività ricreative si sono adattate alla crescente popolazione russofona. Si tratta, inoltre, di un’importante fetta di popolazione dal punto di vista economico, trattandosi in larga parte di liberali, laureati e nomadi digitali che in Russia conducevano vite economicamente agiate, che ora conducono in Serbia. Eppure, qualcosa sembra essere cambiato, specialmente da quando il presidente Aleksandar Vucic ha scelto Aleksandar Vulin come capo dell’intelligence.
Le pressioni di Vucic e Vulin sui russi in Serbia
Sia il presidente della Serbia che il suo fedele aiutante condividono una visione piuttosto precisa sulla Russia, sul Cremlino e su Putin. Notoriamente, infatti, sono entrambi filo putiniani ed appoggiano (non materialmente) la guerra contro l’Ucraina. Vulin, appena eletto, ha stretto un patto con il Cremlino per aiutarlo a limitare le proteste degli oppositori contro Putin e contro la guerra, con azioni che sono diventate evidenti soprattutto nelle ultime settimane.
Infatti, ora, gli esuli russi in Serbia si guardano bene dal pronunciarsi pubblicamente in modo opposto alla guerra, perché il rischio è quello di essere estradati, rientrare in Russia e finire, presumibilmente, in una qualche prigione (nel migliore dei casi). Secondo quanto racconta il quotidiano Le Figaro, infatti, sono sempre di più gli attivisti a cui non è concesso rientrare a casa loro, in Serbia, dopo una partenza in aereo, così come sono anche di più quelli che si vedono consegnare a casa una lettera di revoca del visto. “Diciamo no alla guerra in Ucraina e vogliamo la libertà in Russia. Perché siamo una minaccia?”, si chiede l’attivista Peter Nikitin, dicendosi “molto preoccupato [che Belgrado] prenda la strada repressiva del regime del Cremlino e diventi la piccola Russia di Putin“.