Gli “umori popolari” non possono influenzare il convincimento del giudice, né i processi mediatici possono fare da filtro alle valutazioni di una Corte in merito alla sorte di un imputato. Lo dice a chiare lettere un passaggio delle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso luglio, la Corte d’Assise d’Appello di Roma ha assolto la famiglia Mottola dall’accusa di essere coinvolta nell’omicidio di Serena Mollicone.



Si tratta di un verdetto che incontra l’opposizione della famiglia della vittima e della Procura generale, pronti al ricorso in Cassazione, ma che si fonda sul principio cardine del diritto processuale penale secondo cui, come si legge all’art. 533, “iI giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio“. Un principio fin troppo spesso trascurato, talvolta addirittura ignorato, nel sistema italiano notoriamente denso di errori giudiziari e dubbi irrisolti in sede dibattimentale (tra gli esempi più eclatanti, il caso di Beniamino Zuncheddu in carcere per 33 anni da innocente).



Serena Mollicone, dentro la sentenza: perché, per i giudici, l’unico verdetto possibile è l’assoluzione

Chi ha ucciso Serena Mollicone? Secondo i giudici romani, che hanno confermato l’assoluzione di Franco Mottola, della moglie Annamaria e del figlio Marco anche nel secondo grado di giudizio, il pronome “chi” della domanda chiave, all’esito del processo sul delitto di Arce, non trova “un nome o nomi certi” a sostituirlo. In sostanza, non si può attribuire ai Mottola la responsabilità della morte della 18enne perché mancano prove certe di colpevolezza.



La Corte d’Assise d’Appello di Roma, nelle motivazioni della sentenza, parla di “un compendio probatorio complessivamente insufficiente e contraddittorio” che impedisce di “individuare gli imputati quali responsabili” se si segue alla lettera (come si dovrebbe) il principio della “condanna oltre ogni ragionevole dubbio”.

Giudici sui Mottola: “Sentenza di colpevolezza avrebbe fondamenta instabili”

I giudici romani sono stati chiari nel sottolineare che le aule di giustizia sono luoghi in cui non può avere spazio il sentimento popolare, ancor meno se chi è alla sbarra rischia l’ergastolo ed è stato già esposto a un processo mediatico che lo ha condannato a priori. “Non può albergare la polemica frase di un noto intellettuale: ‘Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi’“, scrive la Corte nelle motivazioni dell’assoluzione dei Mottola spazzando via, di fatto, la cornice di sospetti e “sentenze” televisive che spesso fanno da anticamera al processo, quello vero, che deve celebrarsi in tribunale.

Questa Corte – è uno dei passaggi cruciali della sentenza d’appello – ritiene di non avere le prove della colpevolezza degli odierni imputati, e sa che una sentenza di colpevolezza sarebbe costruita su fondamenta instabili“.