La famiglia di Serena Mollicone, la 18enne uccisa ad Arce (Frosinone) il 1° giugno 2001, non si ferma e sarebbe pronta al ricorso in Cassazione, riporta Il Corriere della Sera, dopo l’assoluzione dei Mottola confermata in appello a Roma lo scorso luglio. Per i giudici di secondo grado, che hanno ribadito quanto stabilito nel primo verdetto emesso dalla Corte d’Assise di Cassino nel 2022, non c’è prova della colpevolezza degli imputati e per questo non è possibile esprimere un giudizio “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Lo si legge nelle motivazioni della sentenza in cui vengono sollevati aspetti nodali del principio che dovrebbe portare a una condanna fondata su elementi nitidi a carico. Per le famiglie di Serena Mollicone e Santino Tuzi (il carabiniere che avrebbe detto di aver visto la ragazza entrare nella locale caserma e di non averla vista uscire, morto suicida nel 2008 prima di testimoniare), non è stata fatta giustizia. La sentenza di primo grado era stata impugnata dai parenti e dalla Procura.
Le incertezze nel giallo di Arce secondo i giudici d’appello
Nel motivare la decisione di assolvere tutti gli imputati del processo per il giallo di Arce – l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, Franco Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco accusati dell’omicidio di Serena Mollicone, i carabinieri Francesco Suprano e Vincenzo Quatrale – i giudici della Corte di Assise d’Appello di Roma hanno sottolineato l’assenza di prove certe non solo in merito alla colpevolezza dei Mottola, ma anche in relazione a tutta una serie di “nodi” della ricostruzione del delitto. All’esito della sentenza di secondo grado, tutte le parti che impugnarono l’assoluzione del primo sono state condannate al pagamento delle spese processuali, famiglia della 18enne compresa.
Per i giudici d’appello, non è certo Serena Mollicone sia entrata nella caserma di Arce né che sia stata “scagliata contro la porta” come ritenuto dall’accusa. Le “incertezze” che per la Corte appaiono insuperabili riguardano anche, scrivono i giudici, “la mancata prova del movente”, il “perché” dell’uccisione della ragazza. Un movente definito in sentenza “evanescente”. L’impianto probatorio è stato considerato insufficiente e contraddittorio, condizione che “impedisce di individuare gli imputati Mottola quali responsabili dell’omicidio di Serena Mollicone“. Una condanna, secondo la Corte, “sarebbe costruita su fondamenta instabili“. Ma per le famiglie della 18enne e di Santino Tuzi non è così. Resta ora la Cassazione, richiamata dai giudici per l’eventuale valutazione: “Non può escludersi che le prove, invece, ci siano – si legge ancora nelle motivazioni della seconda assoluzione –, e che questo Collegio non abbia saputo valorizzarle (…). Qesto lo dirà, eventualmente, la Suprema Corte, magari stabilendo che le incertezze probatorie siano superabili“.