La storia di Sergio Cosmai, il direttore del carcere di Cosenza assassinato dalla ‘ndrangheta nel 1985, è al centro della puntata di Cose Nostre intitolata “Per un’ora d’aria”, in onda in seconda serata su Rai 1 il 27 maggio. L’omicidio avvenne il 12 marzo in un agguato che lo strappò alla sua splendida famiglia e ad una carriera nel segno dell’onestà e del coraggio contro la prepotenza dei mafiosi. Virtù che lo avrebbero portato alla condanna a morte, come vedremo più avanti approfondendo la sua tragica vicenda, per volere di uno dei boss della malavita cosentina dell’epoca.



Sergio Cosmai aveva 36 anni, era sposato con la moglie Tiziana Palazzo e stavano aspettando il secondo figlio dopo essere già diventati genitori di una bambina che allora di anni ne aveva solo 3. Un bimbo che sarebbe nato poche settimane dopo la morte del padre. Sergio Cosmai era arrivato al vertice del peniteziario nel 1982 e aveva iniziato a riorganizzare la struttura, una delle più critiche del territorio, nell’ottica della massima attenzione al rispetto delle regole. Il suo ferreo senso di giustizia, poco tempo più tardi, gli sarebbe costato la vita.



Il ritratto di Sergio Cosmai

Sergio Cosmai era originario di Bisceglie, in Puglia, dove era nato il 10 gennaio 1949. Conseguita la laurea in Giurisprudenza, aveva ottenuto l’incarico di vicedirettore della Casa circondariale di Trani e, nel corso della sua intensa carriera, aveva lavorato in diversi penitenziari tra Lecce, Palermo, Locri e Crotone. A Cosenza, dove il 12 marzo 1985 sarebbe finita tragicamente la sua esistenza, era arrivato nel 1982.

La sua presenza, nelle vesti di direttore, aveva segnato il tramonto di tutti i privilegi concessi ai detenuti che erano esponenti di spicco della criminalità organizzata. Per recidere il “cordone ombelicale” che teneva legati i boss dietro le sbarre e le regi criminali locali all’esterno, Cosmai aveva fatto trasferire alcuni di loro per indebolirne l’influenza sul territorio, un potere capillare e occulto agito pur in costanza di detenzione. Impedì la concessione di permessi premio e di regimi di semilibertà, non concesse l’ora d’aria supplementare chiesta dai detenuti calabresi a cui sarebbe seguita una violenta protesta interna. Il direttore del carcere avrebbe proposto un incontro con una rappresentanza dei detenuti, e fu allora che Franco Perna, all’epoca capo dell’omonima ‘ndrina, avrebbe rifiutato rilanciando con la richiesta che fosse Cosmai a presentarsi da lui. Il no di quest’ultimo alla sfida del boss portò all’agguato mortale ai danni di Cosmai.



Le parole della moglie di Sergio Cosmai: “La memoria non basta”

L’ordine di uccidere Sergio Cosmai sarebbe partito dall’interno del carcere, portato all’esterno dalla compagna del boss. La giustizia avrebbe impiegato decenni a trovare mandante ed esecutori dell’omicidio. La Corte d’Assise di Trani condannò all’ergastolo Stefano Bartolomeo, Nicola e Dario Notargiacomo. Un primo grado di giudizio a cui seguì il ribaltamento della sentenza in appello: assolti per insufficienza di prove.

Il primo fu ucciso nel 1991 con il fratello Giuseppe, assassinati dopo aver tentato di affrancarsi dal controllo di Perna. I Notargiacomo, invece, erano diventati collaboratori di giustizia e poi, come ricostruisce la scheda del Ministero dell’Interno sul caso Cosmai, confessarono l’uccisione del direttore del carcere ma restarono impuniti perché già assolti per lo stesso delitto con sentenza passata in giudicato. Ergastolo in Cassazione, invece, a carico di Franco Perna. La moglie di Sergio Cosmai, Tiziana Palazzo, ha definito suo marito “un puro” e ha sottolineato che la memoria, da sola, non basta: “Speriamo che si riportino alla luce certe storie, certi impegni di vita e che vengano seguiti come esempio per le nuove generazioni“.